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Femvertising, se il femminismo serve a vendere

Femvertising: una tazza con su scritto "I love my boss" viene scagliata in faccia a un uomo
Femvertising: una scena dello spot dell’azienda danese Bianco

Negli ultimi anni la parola femminismo e le richieste di pari diritti da parte delle donne (ma non solo) sono diventati così rumorosi da raggiungere i reparti marketing di molte aziende e case discografiche.

È nato un femminismo pop, semplificato e colorato, non sempre necessariamente negativo, ma molto spesso genitore di storture. Una versione leggera di quello che è un movimento politico a tutti gli effetti, capace di raggiungere un pubblico più vasto con risultati molto diversi.

Le aziende che hanno sposato la versione pop del femminismo lo guardano dalla prospettiva del marketing e sono molto distanti dalle lotte per i diritti.

L’appropriazione edulcorata dei principi del femminismo a scopo commerciale è l’origine del cosiddetto “femvertising“, parola che unisce i termini femminismo e advertising (pubblicità) e indica un fenomeno cui assistiamo da qualche anno, cioè da quando il termine femminismo è stato adottato da alcune star che l’hanno fatto diventare “di tendenza”.

Una campagna di femvertising molto nota è ad esempio #likeagirl, ideata nel 2014 da un’azienda di assorbenti, che si rivolge alle più giovani affrontando la lotta agli stereotipi di genere.

Da questa campagna, per quanto gli scopi fossero commerciali, partiva comunque un messaggio positivo, ma altre pubblicità per fare presa sul pubblico sfruttano l’insoddisfazione delle donne per le condizioni di diseguaglianza, associandole a rivendicazioni piegate al consumismo. 

Risultato: per vendere ci si traveste malamente da marchio femminista, cascando nei peggiori cliché.

Un esempio è la recente campagna #WomenNeedMore, del marchio di calzature danese Bianco.

Il video inizia mostrandoci alcune donne occupate in ruoli subalterni, mentre la voce narrante parla di uguaglianza salariale e sottolinea la oggettiva disparità del costo della vita fra donne e uomini. La parte ragionata dello spot finisce qui, perché Bianco, che sulla sua pagina sostiene di approcciarsi ai trend culturali con ironia e umorismo, prosegue affermando che le donne abbiano bisogno di più soldi per scarpe e vestiti. Gli uomini, invece, no, perché sarebbero privi del senso della moda.

E proprio contro gli uomini si scagliano le modelle dello spot, lanciando oggetti, furiose. Essere arrabbiate non è sbagliato: negare la rabbia delle donne è quanto di più patriarcale si possa fare, per ricacciarle nel rigido ruolo di creature di consolazione. In questo caso però, la narrazione vede donne che usano la loro rabbia con un’aggressività che ricalca le dinamiche di forza proprie del patriarcato, alla ricerca di una disparità tra generi.

Lo spot giustifica così le sue richieste:

“Alle donne serve di più. I nostri tagli di capelli sono più costosi. I nostri indumenti intimi sono assurdamente più costosi. È semplicemente più costoso essere una donna rispetto che essere un uomo. Dovremmo davvero essere pagate meno di qualcuno che mette la crema corpo sul viso? Lui non ha bisogno di un nuovo vestito per ogni nuova occasione. Lui non sa neppure che sono le scarpe a fare l’outfit. O la gioia di scegliere le scarpe giuste. La moda significa esprimere te stessa E ogni donna di stile dimostra che lo stesso stipendio non è abbastanza. Lo stesso stipendio non è abbastanza”.

E’ vero, il costo della vita di una donna è mediamente più alto di quello di un uomo, ma nello spot, il cui scopo non è certo l’equità di genere, non ci si interroga sul perché. Piuttosto, si ignorano le istanze del riconoscimento dell’uguale valore del lavoro delle donne, una lotta ancora in corso e con motivazioni profonde, che derivano dalla struttura stessa della società.

Lo spot pasticcia affermando che per le donne indossare un abito nuovo ad ogni occasione sia un bisogno dovuto, non una scelta o un’imposizione sociale, creando un corto circuito tra rivendicazioni femministe e la necessità di soddisfare le richieste consumistiche.

Questa pubblicità riduce ancora una volta le donne a esseri irrazionali e capricciosi e le contrappone a una visione macchiettistica degli uomini, in un dualismo in cui l’uomo è l’ottuso nemico e l’obiettivo ultimo è la supremazia del genere femminile, il cui principale scopo sembra essere quello adeguarsi alle aspettative sociali dettate dalla moda e dal consumo.

In 135 secondi lo spot travisa completamente il senso delle lotte per la parità di genere, veste donne e uomini di stereotipi e lo fa a fini puramente capitalistici, inconcepibili per un movimento come il femminismo che considera questo tipo di assetto produttivo e sociale una delle ragioni principali dell’oppressione di genere.

Inoltre, spalanca la porta alle solite trite polemiche secondo cui la disparità salariale non esiste e incoraggia la convinzione che il femminismo voglia sottomettere il genere maschile.  

Il video, al momento in cui è stato redatto questo articolo, su Facebook ha totalizzato oltre 4 milioni di visualizzazioni e 21mila condivisioni, raggiungendo tantissime persone e lo scopo del marchio di fare parlare di sè. Fra i commenti però, moltissimi sono di accusa e sottolineano l’insopportabile associazione fra diritti delle donne e fini capitalistici, mentre Bianco risponde con il leitmotiv dell’ironia. 

Quando si parla di femminismo, l’importante non è che se ne parli, ma che se ne parli nei termini giusti per non vanificare e strumentalizzare decenni di dure lotte in nome del profitto.