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Teniamo che fare: femminismo e meridione

Il femminismo mainstream può comprendere l'oppressione delle donne del sud Italia?  Se il meridione è considerato una zavorra, retrogrado e passivo, abbiamo molto da fare per scoprire le nostre forme di liberazione e per superare il modello di progresso che devasta i corpi e i territori del sud

Articolo pubblicato originariamente su menelique magazine #5. L’autrice parteciperà al dibattito in diretta su FEMMINISMI E DECOLONIALITÀ IN ITALIA che si terrà sulla pagina Facebook di Pasionaria.it il 5 ottobre 2021 alle ore 19. L’evento è a questo link

femminismo questione meridionale
Dettaglio dell’illustrazione di Erica Borgato per Menelique magazine #5 | Diritti riservati

 

Apparecchio. Così mia nonna chiama l’aereo.

Quando torno a trovarla, mi domanda: com’è volare? Quanto dura il viaggio? E come fa l’apparecchio in volo, trema?

Ripete le stesse domande ogni volta e poi aggiunge: quando mi sono sposata, scendere dalle pinete del Vesuvio a qui, dove c’erano tante case, mi sembrava passare a un altro mondo e tu, invece, te ne sei andata tanto lontano.

Mia nonna non sa leggere né scrivere. Negli anni 60 ha provato a imparare con Non è mai troppo tardi, il programma televisivo dedicato all’istruzione popolare per il recupero di adulti analfabeti.

L’ostacolo più grande all’apprendimento di mia nonna non era né un particolare impedimento cognitivo, faceva a mente tutti i conti e, fino a che la memoria non ha iniziato a vacillare, era perfetta nella gestione amministrativa della casa, né, a quel punto, il lavoro. Era la vergogna. E un grande senso interiorizzato di appartenere a un gruppo umano di serie B.

Un’emozione e una credenza che hanno percorso mille rivoli e nelle successive generazioni si sono trasformate a volte in negazione e rimozione, a volte in desiderio di riscatto e altre in sostanziale collusione.

Scusarsi di parlare il dialetto è una costante che ricordo di mia nonna ogni volta che una persona sconosciuta si è avvicinata a lei. Ho iniziato molto presto a chiedermi perché parlare la lingua italiana significasse per certe persone della mia terra intimidazione, o esclusione. E se gli strumenti del femminismo contemporaneo siano capaci o no di comprendere e combattere l’oppressione vissuta dalle donne del sud, senza negare al sud le sue forme possibili di progresso e liberazione.

Entrambi i miei nonni materni hanno lavorato terre che non gli appartenevano. Essere braccianti era così uno stato d’animo, oltre che materiale, ciò che definiva e determinava il senso delle loro azioni. Avere un senso distorto della proprietà, percepire le pretese di un potere ambiguo, di questi ricchi signori di Napoli che si facevano vivi a sorpresa per l’annata.

Questa coscienza di impotenza non ha lasciato indifferente mia nonna, che mi dice amma crisciut sott’ u’ ciel, senza sape’ niente du’ munno.

Si tratta di un fatalismo che pervade, per fare un esempio, i racconti della guerra e quelli dell’eruzione del Vesuvio del 1944: le cose accadevano intorno, il pericolo arrivava da tutti i lati, ma senza che se ne conoscesse mai l’origine. Tutti i racconti di quei tempi comprendono storie sul cercare riparo, costruire rifugi, nascondersi, diventare invisibili, diventare fantasmi nella propria terra.

Quel senso di nullità autoassegnato forse parte da qui: l’unico modo per salvarsi era rimanere docili, non ribellarsi mai, fino a scomparire.

Tuttavia, a non essersi mai dovuta allontanare troppo dai luoghi in cui è cresciuta, in qualche modo mia nonna si sente fortunata. L’emigrazione è stata vissuta dalla generazione sua e quella di mia madre come una eventualità da sfuggire a tutti i costi, e si può dire sia stata forse soltanto la fertilità della terra e uno spirito di sopportazione comune a chiunque finisca per assorbire certi squilibri di potere, a evitarla.

Dalla mia famiglia non mi sono arrivate storie di grandi ribellioni allo stato di cose, come molte accadute al sud, alcune che ho vissuto, ascoltato o letto, ma di un desiderio semplice di esistere, e di avere modo di conservare le proprie memorie, potersi affidare a riferimenti familiari nello spazio e nel tempo.

Tra le mura domestiche, e attraverso l’oralità si ricostruisce con ostinazione un tessuto sottoposto a mille scosse, si onorano i morti, si presidiano le tradizioni. Una tensione che usando il senso comune dovrei definire reazionaria, ma che se decido di affidare a un punto di vista decoloniale, si trasforma spesso in altro, in un atto di resistenza.

L’articolo originale sulle pagine di Menelique magazine #5

Le parole di María Lugones, filosofa femminista argentina che abbiamo perso lo scorso anno, possono tornare utili a gestire una chiave di lettura differente in una nazione in cui le culture meridionali sono sempre state lette e descritte come retrograde, passive, un ostacolo alla civilizzazione.

In Verso un femminismo decoloniale, scrive: ‹la trasformazione civilizzatrice ha giustificato la colonizzazione della memoria, e quindi dei sensi che le persone hanno di se stesse, della relazione intersoggettiva, della relazione con il mondo spirituale, con la terra, con il tessuto stesso della loro concezione della realtà, della sua identità, e dell’organizzazione sociale, ecologica e cosmologica›.

Non a caso è una dinamica molto evidente nei margini: le lotte di resistenza nel Meridione delle soggettività queer, per esempio, rivendicano anche l’inciviltà, l’essere soggetti indecorosi, resistendo a essere assimilati in pulsioni che puntano alla creazione di una bianchezza che esclude.

In Tempo di essere incivili, un saggio del 2016, Alessia Acquistapace, Elisa A. G. Arfini, Barbara De Vivo, Antonia Anna Ferrante e Goffredo Polizzi riflettono sulla retorica omonazionalistica e sull’ascesa della bianchezza sulla linea della classe e della razza, e che tende a produrre un’omosessualità accettabile, appannaggio delle comunità bianche, sbiancate e civilizzate.

Autrici e autori si chiedono: ‹nel momento in cui il sud del Mediterraneo è migrato, e migra, in massa in Italia, cosa vuol dire in termini di ricomposizione delle linee del colore il bisogno di allontanarsi dall’orizzonte simbolico del sud? In che modo è soprattutto il Meridione a entrare in gioco in questo processo di sbiancamento liberale? Cosa vuol dire civilizzarsi soprattutto per le donne e le froce meridionali?›.

E cosa ha voluto dire quella ‹trasformazione civilizzatrice› nel panorama delle lotte contro la devastazione dei territori del sud?

Francesca De Rosa, ricercatrice all’Università Orientale di Napoli e attivista transfemminista, ha attraversato le lotte campane iniziate alla fine degli anni ’90 contro inceneritori e lo sversamento di rifiuti, e descrive la narrativa che si abbatteva sui territori in lotta portata avanti dai governi: ‹il sud sporco che non sa differenziare, non vuole il progresso, non vuole i nuovi posti di lavoro›, è abbastanza chiaro, come lei sottolinea, che questo significasse un esercizio preciso di scelta dei territori destinati alla devastazione.

Francesca riconosce nei movimenti di lotta la scoperta di forme di autodeterminazione che combattevano l’intreccio necrofilo di imprenditoria, politica e camorra, ‹indissolubilmente legato alla nostra terra e al corpo›, e ricorda l’apporto di molte donne: ‹un esercizio di memoria è necessario per ripensare in una prospettiva femminista il contributo fondamentale delle donne all’interno di queste battaglie che hanno immaginato e animato le lotte per la giustizia ambientale, fatto sulle barricate e soprattutto sfidato a testa alta gli sguardi sbalorditi dei politici che mentivano. ‘Io non ho paura. E nemmeno la mia gente.’ diceva Consiglia Terracciano, pilastro della lotta di classe, nella sua vita passata tra le lotte in fabbrica, nella mobilitazione per gli alloggi popolari a Acerra, nei disoccupati organizzati e nelle lotte per l’ambiente›.

Quella ‹trasformazione civilizzatrice›, insomma, significa per il sud Italia l’imposizione di un modello che devasta i corpi e territori e ne stravolge le relazioni.

Dalle emigrazioni di inizio 900 fino al dopoguerra e alla diaspora contemporanea, quella a più bassa intensità, nel Meridione la maggioranza delle famiglie può contare almeno una persona che ha pigliato la via di fuori. Il fuori è sempre stato un nord che ha accolto in maniere differenti le donne, facendo molta fatica a includerle nel progetto emancipatorio. La storia delle donne emigrate è un’altra storia di fantasmi.

menelique diaspora
La copertina del numero 5 di Menelique magazine

L’emigrazione meridionale storica è stata sempre raccontata come un’epica di ardimento e duro lavoro soltanto al maschile, che tralascia spesso i compiti travagliati attinenti alla riproduzione della vita in luoghi che accoglievano con una certa ostilità i nuovi arrivi.

Come descrive Ada Lonni in Migrazioni, professioni ed emancipazione femminile: il prezzo da pagare, quello che succedeva nel dopoguerra era assai peculiare in Italia e un caso particolare nella stessa Europa, poiché la prima immigrazione di donne straniere si è verificata proprio mentre era in atto l’esodo dal sud al nord Italia: ‹in quegli anni si è verificato un modello di ‘migrazione misto’, e molto diverso da quanto avveniva nel resto dell’Europa. A fronte di una massiccia richiesta di manodopera per sostenere la forte industrializzazione, i paesi del centro e del nord Europa accoglievano immigrati dal sud del mondo; l’Italia invece attingeva a due bacini di manodopera diversi: la manodopera richiesta dal settore industriale proveniva dal meridione dell’Italia stessa, mentre le donne chiamate per le incombenze domestiche venivano da un sud molto più lontano›.

L’arricchimento del nord a spese del sud ha influenzato anche l’identità di molte donne di classe media, molto più familiari coi concetti di carriera, del lavoro come emancipazione e realizzazione personale e rappresentanza nella vita pubblica.

Larghe fasce di popolazione femminile del sud, invece, sono ancora impegnate a raggiungere obiettivi minimi, spesso alla ricerca di maniere di concedersi riposo dal lavoro e da condizioni di estremo sfruttamento e lavoro sommerso, oltre che da situazioni di violenza e deprivazione normalizzate.

Già prima della pandemia, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Lombardia e Emilia Romagna contavano circa 2 donne su 10 a rischio povertà e esclusione sociale, mentre in Sicilia lo era 1 donna su 2, come indica l’indagine Mai più invisibili. Indice 2020 sulla condizione di donne, bambini e bambine in Italia di WeWorld.

Yuderkys Espinosa Miñoso in De por qué es necesario un feminismo descolonial, afferma che nei paesi ricchi quelli che sono considerati trionfi del movimento femminista, sono più spesso soltanto una ‹svolta nell’ordine delle democrazie liberali moderne›, una colonialità che assicura il benessere di alcune (donne privilegiate bianche e borghesi) a scapito della grande maggioranza razzializzata.

Ancora una volta, per descrivere, analizzare e combattere l’oppressione delle donne del sud, lo strumento del femminismo dell’Europa ricca sembra rivelare i suoi limiti e lasciare troppe donne nell’ombra, non solo a sud. E ancora una volta dobbiamo assumerci la responsabilità di non scadere nell’appropriazione di elaborazioni nate nelle condizioni della vita di frontiera e fuori dal privilegio europeo.

Una lettura decoloniale può servire a riconoscere punti di contatto e alleanze e a coltivare la solidarietà nei margini.

Il femminismo mainstream che aspira solo a una parità coi soggetti dominanti, che misura l’emancipazione in base alla capacità di accumulare ricchezza, alla produttività, già non parla a molte femministe del nord e non potrà mai parlare a territori tenuti a terra da politiche inique strutturali. È evidente che le aspettative e prospettive di liberazione dal patriarcato non possano essere le stesse ovunque.

Scrive Rachele Borghi, in Decolonialità e privilegio: ‹la colonialità si insinua anche nella sfera dell’intimo, influenzando la maniera in cui i soggetti in situazione di subalternità si relazionano tra loro e come si mettono in relazione con i soggetti dominanti›. Se le reti di affetti tra soggetti subalterni possono diventare ‹strumento di resistenza›, possiamo aspirare a che riescano a contenere più complessità di un generico appello all’esperienza universale di donna.

Non c’importa del tuo tetto di cristallo se saranno le altre a dover ripulire i cocci›, è lo slogan delle transfemministe antirazziste, anticapitaliste e anticoloniali di Barcellona durante i cortei notturni del 7 marzo, come risposta a quelli dell’8 marzo.

Si chiede però Carla Panico, ricercatrice dell’Università di Coimbra: ‹a che latitudine inizia, quindi, il Sud? Dove si colloca esattamente il confine, quando da Sud un’intera generazione, costretta alla mobilità continua per ricatto del lavoro, invade e contamina con le proprie forme di vita le metropoli nord europee? La Storia d’Italia, storia soprattutto di una questione meridionale eternamente irrisolta e di spostamenti di massa di forza lavoro, ci consegna, forse, una definizione possibile: è Sud un luogo da cui si parte molto più di quanto si arrivi.›

Oggi abito una città che non so collocare nello spazio mentale di mia nonna.

Quando me lo chiede, aro’ stai e’ casa mo?, devo disegnare un’Europa, e aiutarla a immaginare oltre. Uso la meteorologia: le dico lì dove fa freddo e piove sempre. Lei sa che più si va a nord, più aumenta il lavoro e più peggiora il tempo.

Ogni volta che riparto lei o mia madre mi mettono in tasca un tovagliolo di carta, dentro c’è sempre una qualche talea, che io mi porto in viaggio, attraversando questi agenti meteorologici. E quando arrivo, quella talea, i racconti di mia nonna, le parole delle compagne della mia terra e parole come quelle che ho appena scritto, mi servono per sapere davvero dove sto di casa e per riconoscere i fantasmi delle donne che vi si aggirano per non farli scomparire più.