Giulia Galiotto. Rossana Jade Wade. Laura Russo. Giordana Di Stefano. Stefania Garattoni. Ilaria Palummieri. Cristina Golinucci. Manuela Teverini. Paola Fabbri.
Sono nomi di donne che hanno perso la vita a causa della violenza maschile. Alcune son state uccise, dal marito, dall’ex compagno, dal padre. Altre sono scomparse e non sono mai più state ritrovate.
Sono nomi sbiaditi nelle pagine di cronaca, dimenticati nelle aule di tribunale, ma che riecheggiano ancora dolorosamente nel vuoto che queste donne hanno lasciato nelle loro famiglie.
Ogni nome è una storia e una ferita, raccontata dalla giornalista Stefania Prandi nella sua inchiesta Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta, diventata una mostra fotografica in questi giorni ospitata a Cagliari al Teatro Massimo, dove il 27 maggio alle 17.30 l’autrice presenterà il libro edito da Settenove, primo appuntamento di un tour sardo che toccherà Nuoro il 28 maggio alle 18 allo Spazio Ilisso e Sassari il 29 maggio alle 17.30 alle Messaggerie Sarde.
Le testimonianze raccolte in questa inchiesta sono tanto dure quanto necessarie.
Al di là di ogni retorica e di ogni sensazionalismo, Prandi sposta lo sguardo dal fatto di cronaca alle sue conseguenze nella comunità, aprendo uno squarcio nel dolore di chi sopravvive a un femminicidio: madri e padri, figli e figlie, sorelle e fratelli sono ritratti nella quotidianità di chi, ogni giorno, fa i conti con la rabbia, l’impotenza e troppe domande senza risposta.
«Un incontro di sguardi e di fiducia -scrive Emanuela Falqui, curatrice della mostra esposta a Cagliari fino al 19 giugno -, in cui i familiari consegnano il loro vissuto alla fotografa, che con delicatezza crea un immaginario intimo, di grande intensità psicologica e profondamente incisivo, allontanandosi dalla spettacolarizzazione del dolore alla quale siamo abituati, per lasciare spazio alla riflessione».
Una riflessione che raramente viene affrontata una volta finiti di raccontare i dettagli morbosi di uno stupro e di un femminicidio.
La violenza contro le donne è ancora troppo spesso narrata sui media come un gesto improvviso, inconsulto, motivato da ogni scusa possibile: i debiti, la gelosia, il tradimento, il rifiuto. Eppure in Italia ogni due giorni viene uccisa una donna e una donna su tre ha denunciato di aver subito almeno una violenza sessuale. Oltre l’80% dei casi di violenza di genere avviene tra le mura domestiche e, per questo, durante i lockdown dovuti alla pandemia le richieste d’aiuto delle donne sono aumentate del 73%.
Dati che parlano chiaro: non si tratta di casi isolati ma di un fenomeno strutturale e sistematico, le cui cause non sono relazioni andate a finire male ma una cultura del controllo e del possesso maschile nei confronti delle donne che non potrà mai essere sradicata se non viene neanche riconosciuta. Ma anzi smentita quando l’attenzione non si focalizza sulle responsabilità di chi compie volenza ma sui comportamenti di chi l’ha subita: stava con un altro, usciva di notte da sola, si vestiva in maniera provocante, beveva, voleva lasciarlo.
Colpevolizzazioni della vittima che giustificano e deresponsabilizzano i carnefici, spesso descritti come persone amorevoli ma distrutte dal dolore, come uomini che hanno ucciso perché amavano troppo. L’amore, però, nulla ha a che fare con la violenza, come dimostrano le storie di queste famiglie.
Storie di un amore che diventa resistenza all’odio più efferato e riesce a germogliare in memoria collettiva, gesti di solidarietà, iniziative di sensibilizzazione perché queste tragedie non accadano più.
«La reazione all’infinito dolore individuale, che da personale diventa politico, fatica a essere riconosciuta a livello istituzionale e mediatico. Eppure sono in molti a non smettere di combattere contro l’invisibilità e il silenzio, nemmeno a distanza di decenni dalla morte delle loro figlie, delle madri, delle sorelle. Il vero amore è questo, non quello degli uomini che le hanno uccise».