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Feminism in London 2014, noi c’eravamo! E alla fine ci siamo chieste perché

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Lo scorso ottobre una delle attiviste più impavide del nostro staff, la prode Laura, ha partecipato come relatrice al convegno Feminism in London 2014. Poteva mancare una degna rappresentanza di Pasionaria, progetto su cui lavoravamo insieme ormai da mesi? Ovviamente no e ad ascoltarla e applaudirla e fotografarla come neanche due orgogliosi genitori alla prima recita scolastica della figlia, c’eravamo io e Anna. Note per essere entrambe, oltre che diversamente alte, anche un tantino critiche.

In poche parole, ogni dettaglio di quel sabato trascorso tra le arzille femministe britanniche è stato passato ai raggi x. E il bilancio finale della giornata non è stato particolarmente positivo. Se non altro perché ci era stato promesso uno scoppiettante party di chiusura e, mentre sognavamo di scatenarci nelle danze tra birre e vodka lemon, ci siamo ritrovate con nostra grande delusione di fronte a un carissimo buffet vegano e una gara di poesie femministe.

Visto che la giornata è stata lunga e intensa abbiamo diviso l’articolo in più paragrafi. Se non avete voglia di leggere tutto il reportage, cliccate su quello che vi interessa di più:

Cosa ci è piaciuto

Cosa non ci è piaciuto

La crociata contro la pornografia

Autocoscienza? Ora no, grazie!

Laura superstar

Ne è valsa la pena?

 

 

COSA CI E’ PIACIUTO – Non tutto, ovviamente, è stato da buttare via. Sentirsi parte di qualcosa è gratificante. Quella complicità che ci si scambiava con gli sguardi, e i sorrisi quando ci si incrociava, anche tra sconosciute. La consapevolezza di essere tutte diverse, arrivate da chissà dove, ma accomunate dagli stessi valori, gli stessi obiettivi.

Sono sensazioni che non si provano spesso, specialmente se si parla di femminismo, e un evento del genere è come una botta di energia. Ti fa sentire meno sola nelle tue piccole grandi battaglie quotidiane. Ti fa sentire al momento giusto nel posto giusto. Un posto dove nessuno ti guarderebbe con sufficienza commentando: “Secondo me sei un po’ esagerata”. O peggio: “Ma perché sei così fissata?”.

Insomma, una bella boccata d’aria fresca per una che vive in un posto chiamato Italia, dove  iniziative del genere sono rare, di nicchia e ben poco pubblicizzate. Per me era la prima volta a un convegno esclusivamente e dichiaratamente femminista. Ero emozionata e per non darlo a vedere mi sono scatenata senza indugi nelle mie attività preferite in situazioni simili: scattare foto e buttarmi sui gadget.

Mentre mi accaparravo le spilline con su scritto “I love feminism” incurante dei commenti impietosi di Anna, che bofonchiava come fosse sbagliato commercializzare il femminismo, non mi rendevo conto che quando le aspettative sono troppo alte generalmente non va a finire benissimo.

 

 

COSA NON CI E’ PIACIUTO – E infatti poco dopo eccoci lì, nell’auditorium dell’Institute of Education a sentire l’arringa di apertura, dove a fare la parte della leonessa c’era Gail Dines, che all’inizio ci ha contagiato col suo entusiasmo e la sua “chiamata alle armi”, poi, man mano che il pathos del suo intervento cresceva, in modo proporzionale aumentavano le nostre perplessità.

Il primo sopracciglio si è alzato quando Dines ha affermato che il “vero” femminismo non può essere individuale ma solo collettivo e chi afferma il contrario non è altro che una neoliberista nostalgica di Margaret Tatcher. Per quanto possa condividere la sua idea, non amo che mi si venga a dire cosa può essere o non essere un movimento sfaccettato e complesso come il femminismo. E’ come marcare una linea sul terreno: o sei di qua o sei di là. O sei dentro o sei fuori. E se sei fuori non solo non ci piaci, ma ti sbeffeggiamo pure.

Una dinamica che esclude invece che includere, che afferma ma non si apre ai dubbi, ai punti di vista differenti, al dialogo. Quello è stato il primo campanello d’allarme: siamo qua per confrontarci o per cantarcela e suonarcela da sole? Gli applausi scroscianti e le grida di giubilo che arrivavano dalla platea ci facevano propendere per la seconda ipotesi.

Mi son guardata intorno: il pubblico andava da giovanissime ventenni dai capelli blu a canute e dinamiche settantenni. La maggior parte delle donne avevano tra i 25 e i 40 anni. Uomini: pochissimi, per contarli bastavano le dita di una mano e poco più. Ma soprattutto eravamo tutte bianche, o quasi. Se il convegno fosse stato a Roma sarebbe stato abbastanza normale, ma a Londra no, non lo era. E siccome non è possibile che nella capitale inglese non ci siano femministe attiviste di colore, forse se non erano venute un motivo c’era.

 

 

LA CROCIATA CONTRO LA PORNOGRAFIA – Nel frattempo Dines era arrivata al momento clou del suo discorso: la demonizzazione della pornografia, la sua crociata di una vita. Gail ha scritto un libro a riguardo intitolato “Pornland, come la pornografia ha deviato la nostra sessualità” (si può trovare solo in lingua originale su Amazon a questo link), da cui è stato tratto un omonimo documentario.

Ora: sul fatto che la quasi totalità dei prodotti pornografici siano rivolti esclusivamente agli uomini e al piacere maschile e veicolino un’immagine distorta della sessualità femminile, è la sacrosanta verità. Ma che si possa trovare una chiave femminile di fare pornografia, come hanno sperimentato negli ultimi anni diverse studiose e registe, è altrettanto vero. Gail Dines, però, non è d’accordo. Secondo lei parlare di “pornografia femminista” è ridicolo e, per riassumere, tutto ciò che riguarda il porno è il male.

L’argomento è certamente delicato, e su molti aspetti la signora Dines ha le sue buone ragioni (lo ha ammesso perfino l’indomito Rocco Siffredi). Ma pretendere (in che modo poi?) il bando della pornografia tutta mi sembra un atteggiamento integralista e quindi poco produttivo. Perché non cercare invece di renderla più accessibile alla clientela femminile? Perché non lavorare al fianco delle donne che già ci stanno provando per rendere l’industria del porno più umana?

 

 

AUTOCOSCIENZA? ORA NO, GRAZIE! –  Anna e io ne abbiamo discusso animatamente anche mentre ci dirigevamo nell’aula del nostro primo workshop della giornata, intitolato grosso modo “Coltivare l’attività femminista nella nostra vita di tutti i giorni”. Non so cosa ci aspettassimo, fatto sta che ci siamo ritrovate in un gruppo di autocoscienza, e io volevo darmela a gambe levate.

Per chi non lo sapesse l’autocoscienza nel femminismo ha iniziato a essere praticata alle fine degli anni Sessanta e il suo scopo era fondamentalmente quello di permettere alle donne di sfogarsi e diventare coscienti di come i problemi personali legati alla differenza di genere (ad esempio gli abusi domestici, la frustrazione sessuale, le disparità sul lavoro) fossero dovuti alla cultura patriarcale imperante. Da qui il caposaldo del femminismo storico: il personale è politico.

Un dogma tuttora valido e in cui io credo fermamente. Ma trovarmi praticamente costretta a sedermi in cerchio con altre cinque donne sconosciute  e a dover rispondere in inglese a una domanda come: “Quale evento negli ultimi tre mesi ti ha creato problemi in quanto donna influenzando negativamente la tua vita personale, sociale o lavorativa?”, non era quello che avevo in programma per quella mattina.

E invece eccomi incastrata in questa specie di gruppo di auto-aiuto in cui tutte ci sorridevamo imbarazzate e ogni tanto ci schiarivamo la gola per rompere il silenzio. Nella descrizione del workshop non c’era scritto da nessuna parte che mi sarei dovuta sottoporre a questo strazio! Chi era quella gente? Cosa voleva da me? Non ero pronta. Perciò non ho fatto altro che presentarmi e dire che ero italiana, stavo per aprire un sito femminista ed ero venuta a dare un’occhiata in giro. “Cool”, mi hanno detto. Dopodiché siamo tutte ripiombate nel mutismo.

Ero furiosa. E per quanto le signore che hanno tenuto il laboratorio fossero davvero molto gentili e dall’aria vagamente hippie, ho trovato il tutto molto invadente. Visto che si trattava di una pratica così delicata, perché non specificarlo con chiarezza?

 

 

LAURA SUPERSTAR – Per fortuna nel pomeriggio è andata meglio, grazie alla nostra Laura, che è salita sul palco per la sessione dedicata alla parità tra i generi e i diritti delle donne nell’Unione Europea. Parlando della sua esperienza come tirocinante all’Eige, l’European Institute for Gender Equality che ha sede in Lituania, ha spiegato quali vantaggi può trarre la lotta femminista dall’incontro con un’istituzione internazionale come l’Ue, in grado di offrire fondi e piattaforme utili per le associazioni e le attiviste.

Applausi a scena aperta. Purtroppo poco dopo la parola passa a Pierrette Pape, rappresentante, tra l’altro molto simpatica, della European Women’s Lobby, che ci propina lo spot di un’altra crociata: dopo la pornografia, questa volta il cancro da debellare è la prostituzione. Attenzione: non la tratta e lo sfruttamento delle donne, ma la prostituzione in quanto tale. Ci vengono mostrati volti di donne e uomini di tutte le età che sorridendo ci dicono di aver firmato per chiedere all’Unione Europea una proposta di legge che, in poche parole, vieti la mercificazione del corpo.

Confesso di non conoscere i dettagli di questa campagna, che forse chiarirebbero meglio in che modo si vorrebbe ottenere concretamente un simile obiettivo, ma il poco che so mi pone già abbastanza dubbi. Pur concordando sul fatto che, statisticamente, la maggioranza delle donne che si prostituiscono vivono in un contesto di violenza e sopraffazione, l’idea di vietare una libertà individuale, ossia la possibilità di fare quello che si vuole del proprio corpo, mi fa un po’ venire la pelle d’oca. Senza contare il fatto che esistono associazioni di prostitute femministe che rivendicano la loro scelta di vita, per non parlare del capitolo transessuali.

Insomma, il discorso è analogo a quello fatto per la guerra anti-pornografia: perché non lavorare sull’educazione sessuale, sulla cultura del rispetto e sulla lotta contro la criminalità invece che premere sulla censura?

 

 

NE E’ VALSA LA PENA? – Avevamo sentito abbastanza e mentre Laura si smazzava la cerimonia conclusiva, io e Anna ci siamo allontanate alla chetichella per andare a berci il tè delle cinque. Eravamo o non eravamo a Londra? Ci sembrava una scusa abbastanza plausibile per fuggire da un’atmosfera che si era fatta un po’ pesante e una volta di fronte al nostro Earl Grey ci siamo chieste: ne è valsa la pena prendere un volo dall’Italia e pagare un esoso biglietto d’ingresso per partecipare al Feminism in London 2014?

La risposta è sicuramente sì. Perché incontrare tante femministe tutte insieme è stato comunque emozionante. Perché confrontarsi ossigena il cervello. Perché ascoltare il parere di chi la pensa diversamente da te nel migliore dei casi ti fa mettere in discussione, nel peggiore rafforza le tue convinzioni. Perché in ogni caso in contesti come questi si imparano sempre tante cose nuove. Perché è stato comunque un incontro e non uno scontro. Perché ho comprato dei libri femministi bellissimi che neanche sapevo esistessero. E soprattutto perché poi il giorno dopo ce ne siamo andate a fare shopping a Brick Lane. Mentre continuavamo a discettare di femminismom, of course!