Anche questa estate la questione immigrazione ha occupato i primi titoli dei giornali. Pochi giorni dopo il 20 giugno, Giornata mondiale del rifugiato indetta dall’Onu, è scoppiato il caso della nave Sea Watch guidata dalla capitana Carola Rackete, sbarcata senza autorizzazione a Lampedusa. Intanto, si susseguono le tragedie di imbarcazioni disperse nel mar Mediterraneo, e sulla pelle di chi muore in mare, continua il braccio di ferro tra il ministro degli Interni Salvini e l’Unione Europea per l’accoglienza delle persone che decidono di rischiare la vita per raggiungere l’Europa. Continuano anche, lontani dalle pagine dei giornali e dai dibattiti politici, i tentativi di “game” (l’attraversamento illegale della frontiera) dei migranti che percorrono la rotta balcanica tra le atroci condizioni dei campi gestiti dallo IOM e le inumane violenze delle forze dell’ordine croate.
Ma cosa sappiamo davvero delle persone rifugiate e migranti? Come ne parlano i media? Che ruolo hanno donne e persone Lgbt+ nelle dinamiche migratorie?
Il genere del rifugiato
Lo status di rifugiato, secondo la Convenzione di Ginevra approvata nel 1951 dalle Nazioni Unite, spetta “a chiunque, nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trovi fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato”.
Nella Convenzione, così come nella sua definizione di rifugiato, non si trova nessun accenno alle donne e né il sesso né il genere figurano tra le ragioni di persecuzione elencate. Le ragioni di persecuzione sono inoltre chiaramente appartenenti alla sfera pubblica da cui molto spesso le donne sono escluse. Nonostante l’apparente neutralità rispetto al genere, il soggetto attorno cui è costruita la definizione di rifugiato risulta quindi essere quello del maschio adulto.
In tutti gli studi classici sull’immigrazione il soggetto considerato centrale è quello maschile. La donna, quando e se contemplata, viene pensata come un soggetto “al seguito di”, “all’ombra di” e trainata dagli uomini (mariti, padri o fratelli), stereotipata, priva di agency e autonomia, e con quasi nessuna influenza sui processi a cui prende parte.
Solo a seguito dell’arrivo di un altissimo numero di donne in Europa meridionale per lavorare come collaboratrici domestiche e con la responsabilità di mantenere le famiglie nel luogo d’origine emerge l’attenzione degli studiosi per le migrazioni femminili.
Le donne migranti, per la prima volta, vengono viste – al pari dell’uomo – come breadwinner (coloro che provvedono all’intera famiglia), e si comincia a parlare di “femminilizzazione delle migrazioni”. L’elevata domanda di personale domestico in Italia dipende in particolar modo dalle carenze del welfare e dal fatto che le donne autoctone iniziano a lavorare sempre più fuori casa.
“Di che genere sono le migrazioni se la femminilizzazione delle migrazioni è considerata una caratteristica e se le donne sono pensate come una specificità delle mobilità contemporanee?”, si chiede Barbara Pinelli, docente di Antropologia dei processi migratori alla Bicocca di Milano, nel suo libro Donne come le altre. Quando non viene espressamente specificato, la migrazione è considerata universalmente maschile e, come tale, viene poi comparata a tutte le altre migrazioni. Infatti, mentre l’espressione “femminilizzazione delle migrazioni” è estremamente diffusa, difficilmente si sente parlare di “mascolinizzazione delle migrazioni”, ovvero della presenza maschile come una variabile caratterizzante le mobilità: come in molti altri ambiti il maschile è dato per scontato, il femminile è “altro”.
L’analisi delle relazioni tra migrazione e genere è emersa con grande ritardo, non soltanto perché le donne e le loro istanze sono state a lungo trascurate, ma anche a causa dell’approccio di numerose studiose femministe bianche occidentali che per molto tempo hanno trattato le questioni di genere come se vi fosse un’unica donna universale, senza prestare attenzione alle minoranze.
Da questa cecità – sostiene la giornalista Alice Driver in un bellissimo articolo – derivano politiche migratorie largamente basate sui modelli di storie ed esperienze maschili, nonostante le donne, secondo il Rapporto ONU sull’immigrazione internazionale del 2017, attualmente rappresentino il 48,4% delle persone migranti nel mondo e negli ultimi trent’anni non sono mai scese sotto il 40%.
Ottica di genere e migrazioni: le tappe
Tra il 1970 e il 1980, le donne si mobilitano rivendicando il diritto ad avere visibilità in ogni campo della produzione intellettuale da cui erano state cancellate e gli studi sulle migrazioni non fanno eccezione.
In questo periodo, le studiose – storiche, sociologhe, antropologhe ed economiste – cercano di “scalfire l’impronta androcentrica che aveva reso invisibile la migrazione delle donne”, scrive Pinelli, mettendo in luce gli aspetti peculiari delle migrazioni femminili e denunciando la cosiddetta “distorsione maschile”.
Gli studi di questi anni si concentrano sulla rottura dello stereotipo della migrante “al seguito” schiacciata nella dimensione familiare e portano in primo piano il protagonismo delle lavoratrici. Resta, però, ancora centrale, nelle analisi di questo periodo, la struttura dicotomica che vede i ruoli sociali di uomini e donne come due realtà a sé stanti separate. Emblematico di questa prima fase è il contributo di Mirjana Morokvasic (direttrice di ricerca al Centre National de la Recherche Scientifique di Parigi e docente all’Université Paris X) Birds of Passage are also Women… pubblicato nel 1984.
Alla fine degli anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta, grazie al lavoro di decostruzione della categoria donna, si inizia a considerare il genere come un sistema di relazioni oltre i compartimenti stagni del “maschile” e del “femminile”. In questi anni – secondo Pierrette Hondagneu-Sotelo, docente di Sociologia all’University of Southern California e autrice dell’articolo Feminism and Migration – gli studi sulle migrazioni si concentrano sul dimostrare che i processi migratori riconfigurano i sistemi di diseguaglianza di genere e, più in generale, le relazioni tra i generi.
All’inizio degli anni Novanta, la prospettiva di genere viene arricchita da uno sguardo che tenga conto della categoria analitica dell’intersezionalità: si comprende e si evidenzia che “il genere da solo non è sufficiente per comprendere la complessità dei modelli di identità e dei sistemi di potere e di stratificazione in cui i e le migranti sono inseriti” scrive, per esempio, Francesca Alice Vianello, dottore di ricerca in Sociologia all’Università degli Studi di Padova, nell’articolo Engendering Migration. Si includono, quindi, nelle analisi delle migrazioni, anche le categorie di nazionalità, classe sociale, colore della pelle, appartenenza linguistico-culturale ed età.
Dall’altro lato, in questi anni, si tenta di superare l’attenzione esclusiva verso l’esperienza delle donne, passando così – spiega Helma Lutz, docente di Women’s and Gender Studies alla Goethe University, nel suo articolo Gender in the migratory process – dagli women’s studies ai gender studies. Il genere viene considerato un elemento costitutivo dell’intero processo della migrazione: strutturato dalle migrazioni e strutturante le migrazioni, prodotto e produttore dell’ordine sociale. Vengono messi in luce i processi di costruzione della mascolinità, della femminilità e delle diseguaglianze di potere, non solo tra uomini e donne, ma anche all’interno della stessa categoria di genere.
Solo nel XXI secolo i queer studies emergono come prospettiva per analizzare le migrazioni. Viene coniata l’espressione “sexual migration” per indicare tutti quei movimenti migratori che trovano nell’orientamento sessuale la loro spinta propulsiva. E si pongono le basi anche per studiare in modo critico i trattamenti riservati nei paesi di approdo alle persone migranti omosessuali e transessuali.
Ai margini del femminismo egemone
Nello studio delle migrazioni femminili, un ruolo decisivo è stato giocato da alcune attiviste e studiose (Claudia Jones, Angela Davis, Kimberlé Crenshaw, Chandra Talpade Mohanty, giusto per citarne alcune) che, accusando di universalismo astratto le femministe occidentali che consideravano il soggetto donna come unico, universale e omogeneo, hanno contribuito a porre l’attenzione sulle minoranze e quindi sulle donne migranti.
Attraverso il concetto di “sorellanza” tra tutte le donne, le femministe occidentali riproponevano le categorie di “uomo” e “donna” accomunate “trasversalmente e universalmente dalle stesse caratteristiche senza tener conto delle variabili sociali, strutturali ed economiche” scrive Martina Giuffrè, ricercatrice e docente di Antropologia Culturale presso l’Università di Parma, nel capitolo “Genere” del libro Antropologia e migrazioni dell’antropologo Bruno Riccio. In questo modo, al soggetto donna veniva attribuita come condizione universale la situazione particolare delle donne bianche, occidentali e di classe media.
Secondo queste studiose femministe nere e post-coloniali le identità di genere non sono invece mai neutre rispetto ad altre categorie e, proprio a causa di queste, l’oppressione assume forme diverse. È necessario, quindi, intersecare la categoria di donna con altre forme di identificazione come la razza, la classe sociale, l’orientamento sessuale, la religione, l’etnia, l’identità nazionale evidenziando, in questo modo, le diverse priorità culturali, sociali e politiche che vivono donne di popolazioni diverse.
Nonostante gli enormi passi avanti, il genere non è ancora universalmente considerato un principio organizzativo fondamentale, strutturante le migrazioni, incorporato nelle pratiche quotidiane, nelle strutture politico-economiche, nei discorsi, nel linguaggio, e nella creazione delle identità e delle culture.
La divergenza tra chi adotta un’ottica di genere e la produzione mainstream è evidente: in quest’ultima spesso il genere viene ignorato o incluso in modo superficiale e con poca consapevolezza, spesso relegato nelle sezioni riguardanti le donne migranti, viste ancora troppo spesso come “caso speciale”.
I passi indietro dell’Italia
A livello politico, in Italia, si fanno solo passi indietro. Mentre gli arrivi calano ma non le partenze e la percentuale di persone morte in mare è passata da 1 su 29 dell’anno scorso a 1 ogni 6 di quest’anno, il 15 giugno 2019 è entrato in vigore il cosiddetto decreto sicurezza bis (decreto legge numero 53 su “disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica”). Approvato alla Camera il 25 luglio, con ulteriori modifiche, verrà discusso il 1 agosto alla Commissione affari istituzionali in Senato.
I primi cinque articoli, quelli riguardanti le migrazioni, colpiscono duramente i soccorsi in mare prevedendo ulteriori criminalizzazioni. Queste disposizioni si sommano a quelle già contenute nel primo decreto sicurezza approvato a ottobre (di cui avevamo parlato qui) che nel giro di pochi mesi hanno messo in ginocchio il sistema di accoglienza italiano tagliando i fondi a servizi fondamentali come i corsi di italiano e gli sportelli di supporto psicologico. E sono solo l’ultima tappa di un lungo elenco di dispositivi legali, a partire dalla Turco-Napolitano, passando per i decreti Minniti e i suoi accordi con la Libia, che hanno spianato la strada e costruito le condizioni perché l’intolleranza contro i migranti attecchisse.
Numerose campagne più o meno istituzionali stanno combattendo tutto questo. Ultima in ordine cronologico è la campagna #IoAccolgo promossa da 42 associazioni italiane ed internazionali del Terzo settore e dalle organizzazioni sindacali che invitano ad appendere una coperta termica alla finestra come segno di solidarietà e accoglienza.
È centrale in questo momento di enorme crescita della retorica razzista, nazionalista, reazionaria e fondamentalista non dimenticare l’importanza dell’intersezione tra le lotte.
Spesso sono proprio gli anti-abortisti che, mentre si professano difensori della vita quando devono decidere al posto delle donne sui loro corpi, gioiscono di fronte ai barconi che affondano. Sono gli stessi che alzano i muri e difendono i confini a fomentare l’odio verso le donne con frasi pregne di stereotipi che le insultato, sminuiscono e sessualizzano. Sono coloro che discriminano le diversità che si accaniscono contro i diritti delle donne, delle persone lgbt+ e delle persone migranti.
Allora facciamo in modo che le nostre battaglie siano sempre più femministe e anti-razziste, che alla nostra quotidiana lotta contro il sessismo e l’omotransfobia si affianchi anche la nostra lotta per i diritti di tutte le persone migranti. Il femminismo è intersezionale o non è.