Come possiamo aiutare la lotta delle donne e delle soggettività LGBTI+ in Afghanistan?
Il 16 agosto i “nuovi” Talebani, signori della guerra e del traffico di droga, sono tornati a prendere il potere a Kabul. La notizia riecheggia su tutti i media italiani e internazionali. Abbiamo tutte e tuttx negli occhi le immagini drammatiche delle persone che, pur di sfuggire alle rappresaglie del gruppo fondamentalista, si aggrappano alle carene degli aerei in fase di decollo, precipitando pochi minuti dopo.
La gravissima crisi umanitaria che continua ad affliggere l’Afghanistan peggiorerà per tutta la popolazione, soprattutto per le donne – che, pur sotto occupazione militare da vent’anni, avevano riconquistato parziali libertà – e per le soggettività LGBTI+, due gruppi che rischiano finanche la vita sotto il nuovo regime.
Noi che non ricopriamo incarichi di politica istituzionale, ma che non vogliamo rimanere a guardare, cosa possiamo fare? Innanzitutto cercare di comprendere cosa sta accadendo davvero oltre le narrazioni mainstream che descrivono i paesi occidentali come portatori di libertà e liberazione.
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Una crisi annunciata
Per le persone più attente alla politica estera quello che sta succedendo in Afghanistan è un disastro annunciato.
Il ritiro delle truppe d’occupazione statunitensi, già dichiarato da Trump come parte di un esplicito accordo con i Talebani e messo in atto dalla nuova amministrazione Biden, non è certo un riconoscimento della capacità di autodeterminazione del popolo afghano o l’ammissione di aver perseguito una politica colonialista, ma il segno che l’Afghanistan non è più al centro degli interessi economici e geopolitici della potenza nordamericana.
Che a farne le spese sia la democrazia nel paese e i gruppi più oppressi, alle istituzioni degli Usa importa poco, tanto che il presidente degli Stati Uniti ha affermato che la guerra in Afghanistan è stata condotta soltanto per “sconfiggere le forze che attaccarono il paese l’11 settembre”: una pessima prova di revisionismo storico, perché ci ricordiamo tutte e tuttx molto bene le dichiarazioni dell’allora presidente Bush sulla “esportazione della democrazia” in Afghanistan (e poi in Iraq).
Una giravolta che mette a nudo il cinismo della politica internazionale, avvallato anche dalla vicepresidente Kamala Harris, che molti avevano salutato come un’icona del femminismo e della sinistra.
A dispetto degli accordi di Doha, l’offensiva dei Talebani è cominciato a inizio maggio, ma già nel comunicato per l’8 marzo 2021 l’organizzazione femminista afghana Revolutionary Women of Afghanistan (Rawa) aveva denunciato quello che stava succedendo nel paese e il pericolo di un ritorno a un’autocrazia di matrice islamica.
E l’Unione Europea? Complici dell’occupazione statunitense (a cui anche l’Italia ha partecipato, rinnovando più volte l’impegno militare, non solo con i voti della destra, ma anche di quelle forze che si dicono centriste o di centro-sinistra come il PD), i paesi della UE hanno reagito con il silenzio o con mea culpa fuori tempo massimo.
La resistenza delle donne afghane
Nonostante ciò da giorni si portano avanti narrazioni in cui si descrive l’occupazione militare Usa come fonte di libertà per le donne e si rafforza la diffusa islamofobia occidentale strumentalizzando immagini di donne con il burqa.
La violenza misogina del regime talebano è sicuramente da condannare e combattere ma contrariamente alla narrazione colonialista dominante, le donne afghane non sono vittime inerti da salvare: sono sorelle di lotta, che fin dagli anni Settanta si sono costituite in gruppi politici di resistenza autorganizzata per promuovere la propria autodeterminazione.
Il più importante di questi gruppi è proprio Rawa, un’associazione fondata dall’attivista Meena Keshwar Kamal nel 1977 come movimento femminile di resistenza all’occupazione sovietica, che da allora lotta per l’autodeterminazione e l’indipendenza delle donne afghane.
Inoltre a partire dalla cacciata dei Talebani nel 2001, una serie di organizzazioni di donne, operano nel paese per migliorare la condizione femminile, occupandosi degli aspetti più disparati, dalla salute, all’educazione fino ai diritti personali e politici.
Nonostante l’impegno di molte, l’Afghanistan resta uno dei posti peggiori dove nascere donna, a causa di una mentalità patriarcale diffusa e crudele. Non è un caso che i Talebani per crearsi consenso dichiarano di voler rispettare sì i diritti delle donne, ma solo quelli previsti dalla sharia, cioè giustificando attraverso un richiamo strumentale ai precetti religiosi l’esercizio di un dominio patriarcale, autoritario, repressivo e violento.
A questo proposito le militanti di Rawa precisano nel comunicato che abbiamo tradotto qua:
Il portavoce dei Talebani ha dichiarato che non c’è una differenza tra la loro ideologia del 1996 e quella odierna. E ciò che dicono riguardo ai diritti delle donne è la frase esatta usata durante la loro terribile dittatura precedente: applicare la Sharia.
La minaccia per le soggettività LGBT+
Le persone che fanno parte della comunità LGBT+, che rischiavano già la pena di morte sotto il precedente governo, come denunciato dal report ILGA 2019, si trovano davanti a una situazione ancora più complessa: non solo rischiano la vita rimanendo in Afghanistan, ma se il progetto degli Stati Occidentali di far fluire le/x rifugiate/x in Pakistan andasse in porto, per tutte queste persone il quadro legale non cambierebbe poi molto.
Infatti anche in Pakistan l’omosessualità è punibile con la pena di morte e non vi è libertà di parola per e riguardo alla comunità. Inoltre è noto come alcuni paesi occidentali, per esempio il Regno Unito, tendano a respingere le richieste d’asilo delle persone LGBT+ provenienti dall’Afghanistan.
Decostruire lo sguardo colonialista
Senza negare questa gravissima crisi, l’approccio coloniale che è la voce maggioritaria del dibattito pubblico sull’Afghanistan è sbagliato e dannoso: non è molto diverso dalla giustificazione che gli Stati Uniti e i paesi europei hanno utilizzato per l’occupazione militare del paese.
Le donne di RAWA hanno, fin dalla fondazione, elaborato una visione politica autonoma, riassumibile nella formula “né coi Talebani, né con gli Stati Uniti o con le altre potenze”. Sempre nel comunicato che abbiamo tradotto integralmente qua ribadiscono chiaramente il concetto:
«Negli ultimi 20 anni, una delle nostre richieste era di porre fine all’occupazione da parte degli USA e della NATO e ancora meglio che queste forze portassero via con sé i loro fondamentalisti islamici e i loro tecnocrati e che permettessero al nostro popolo di decidere del proprio destino. Questa occupazione ha provocato soltanto spargimenti di sangue, distruzione e caos. Le forze di occupazione hanno trasformato il nostro paese nel posto più corrotto, instabile, governato dal narcotraffico e pericoloso, soprattutto per le donne».
Quello delle donne afghane è un movimento politico e resistenziale ben organizzato, consapevole e determinato che non ha bisogno di essere “salvato” dall’Occidente.
Infatti, le stesse attiviste avvertivano già nel comunicato dell’8 marzo scorso che le donne sarebbero state oggetto di intimidazioni e rappresaglie e proprio per questo si sarebbero organizzate per difendersi:
«Il nemico vuole intimidire, soprattutto le donne […]. Ma le donne possono rompere quest’incantesimo di paura, insorgendo contro i nemici e assediandoli col fuoco della nostra resistenza. Noi donne siamo più esposte degli uomini alla tirannia e all’oppressione dei fondamentalisti di ogni tipo e ora dobbiamo guidare la resistenza contro i Talebani e i loro alleati. […] In risposta ai colloqui di Doha RAWA scrisse “Sorelle, non sacrificate voi stesse, immolate il nemico!”, che senza rispondere a ogni tipo di violenza con la violenza, la nostra oppressione non avrà fine.
Oggi, mentre lavoriamo per la creazione di un fronte democratico contro i Talebani, ci appelliamo a tutte le forze democratiche, secolari, antifondamentaliste, a tutte le donne perseguitate, alle ragazze, agli uomini per dire che non otterremo niente piangendoci addosso. Insorgiamo e resistiamo contro i Talebani e i loro alleati, in ogni modo e a tutti i livelli, e facciamo loro assaggiare il sapore della sconfitta e della tristezza».
Non si tratta dunque per noi Occidentali di ergerci a paladine e paladinx di persone indifese da salvare, ma di aiutare queste donne affinché possano continuare il loro processo di liberazione e autodeterminazione.
Così come già reso esplicito sempre dal comunicato di RAWA per l’otto marzo, nel quale si denuncia l’utilizzo strumentale dei diritti umani da parte degli USA e si chiamano afghane e afghanx a combattere per i propri diritti.
Cosa possiamo fare per l’Afghanistan?
Riconoscere che le donne afghane non sono soggetti passivi, non è una giustificazione per la nostra inerzia.
Possiamo e dobbiamo aiutare, ma farlo nei modi e nei tempi richiesti dalle attiviste/attivistx, che si stanno riorganizzando.
Ecco come:
1) Un’azione che tutte e tuttx noi possiamo sicuramente fare è quella di continuare a tenere alta l’attenzione anche una volta che la situazione afghana scomparirà dalle prime pagine dei media e continuare a fare da cassa di risonanza alle voci delle persone direttamente coinvolte. In questo modo possiamo anche combattere la retorica colonialista e antislamica occidentale.
2) Possiamo, poi, fare pressione sulle nostre istituzioni, governo in primis, e sulle istituzioni europee affinché si garantisca in tempi rapidi l’apertura di corridoi umanitari verso l’Europa (la soluzione prospettata, quella del cosiddetto modello turco, è inaccettabile e insufficiente).
3) Appena la situazione si evolverà, ci sarà verosimilmente bisogno di volontarie e volontarx per l’accoglienza alle rifugiate/rifugiatx e per la raccolta di beni di prima necessità.
4) Sono iniziate anche varie raccolte fondi per le persone che sono nella condizione di poter donare.
Noi segnaliamo che le femministe di RAWA accettano donazioni attraverso l’associazione Afghan Women’s mission a questo link, ma quando le abbiamo contattate le attiviste ci hanno chiesto dall’Italia di organizzare ogni azione di supporto con il CISDA, Coordinamento italiano di sostegno alle donne afghane. Il CISDA accetta donazioni sul proprio conto corrente specificando nella causale “DONAZIONE LIBERALE – EMERGENZA AFGHANISTAN”.
Su Facebook segnaliamo:
- un post di Paola Rivetti con una lista di riferimenti utili per chi sta scappando dall’Afghanistan, per giornalistx e per chi vorrebbe donare;
- il gruppo Facebook #FreeAfghanistan Iniziative per il popolo afghano in Italia in cui si trovano oltre alle raccolte fondi anche tutte le iniziative di università, associazioni di categoria e altre realtà che stanno cercando di dare una mano e di accogliere rifugiatx dall’Afghanistan.
Al momento non siamo riuscita a trovare raccolte destinate specificamente alla comunità LGBT+, ci riserviamo di aggiornare l’articolo appena ne avremo notizia.