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Lavoro riproduttivo: il sistema capitalista sulle spalle delle donne

A dicembre 2020 su 101mila posti di lavoro persi, 99mila erano occupati da donne: un dato che dovrebbe confermare la necessità di ripensare un'economia tesa solo alla crescita che depreda le persone

101 teste stilizzate, 99 femminili e 2 maschili
La disoccupazione a dicembre 2020 per immagini dal post Facebook di Barbara Poggio

 

Se dovessimo rappresentare con 101 portafogli vuoti i 101mila posti di lavoro persi a dicembre 2020 in Italia secondo i dati Istat, ben 99 apparterrebbero a donne e solo due a uomini.

L’anno scorso le donne a perdere il posto di lavoro sono state 312mila su 444mila totali, uno spaventoso 70% capace di distruggere le convinzioni dei peggiori negazionisti del problema della disoccupazione femminile, soprattutto a fronte di un numero maggiore di donne laureate ma non occupate.

La discriminazione di genere sul lavoro è un dato di fatto e le statistiche non fanno che confermarlo anno dopo anno.

I dati Istati 2020 ci dicono che, oltre alle donne, la pandemia ha indirettamente mandato a casa altre categorie già notoriamente sacrificate dal mercato: autonom*, giovani, persone con contratti precari o a tempo determinato.

Piove sul bagnato e i dati rivelano in modo eclatante quanto anche in contesti di difficoltà globale il sistema economico-sociale continui a operare a tutela e vantaggio solo di alcune categorie, quelle già privilegiate: 197mila uomini ultracinquantenni hanno trovato impiego nel 2020, unica categoria a migliorare la propria occupazione .

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Riquadro dal comunicato stampa integrale Istat per dicembre 2020

Lavoro produttivo e lavoro riproduttivo

Chi nega le oppressioni legge questi dati colpevolizzando le categorie svantaggiate, ad esempio constatando che le donne prediligono le lauree umanistiche, lavorano in settori precari come quello della cultura, dei servizi, dell’assistenza.

Invece, è necessario riconoscere il problema strutturale della nostra società.

Nel contesto capitalista di rincorsa forsennata al profitto e all’utopistica crescita infinita, questi settori lavorativi sono declassati ad “ancellari”, non sono considerati produttivi, mentre il capitale li depreda per sostentarsi a costo zero.

Con una logica binaria, il lavoro considerato produttivo dal capitale e quindi salariato (produzione di beni, occupazioni industriali e ambito scientifico) viene associato alla sfera pubblica e maschile. Quello che, invece, viene chiamato lavoro riproduttivo (attività di cura, istruzione ed educazione atte a formare le persone che avranno un lavoro pagato all’interno del sistema di produzione capitalista, o ad accudire chi non può produrre, per età o condizione fisica), perlopiù gratuito o pagato poco, viene associato alla sfera domestica e femminile.

Il lavoro produttivo è l’unico rilevante per il sistema capitalista, perché genera profitto, ma per esistere ha bisogno di persone che comprendano le logiche della società in cui vivono e vendano la propria forza lavoro. Persone cresciute ed educate grazie al lavoro di cura quasi esclusivamente delle donne, non salariato.

In altre parole, il capitale esternalizza alle donne il lavoro riproduttivo di cui ha bisogno per avere “la materia prima”, le persone capaci di avviare la macchina del profitto.

Ma non paga le donne per questo lavoro e massimizza così una parte del profitto. 

 

Un sistema economico disfunzionale

Secondo queste logiche, ma anche per superare gli stereotipi di genere, le donne per accedere al mondo del lavoro salariato, dovrebbero intraprendere carriere nel settore scientifico, tradizionalmente popolato soprattutto da uomini. Per incoraggiarle sono stati messi in campo anche incentivi economici, sia per le studentesse sia per le aziende.

Gli incentivi fanno ovviamente gola alle aziende, ma le donne devono comunque ogni giorno affrontare la resistenza dei colleghi abituati a un ambiente prevalentemente maschile, resistenza che può influenzare l’assunzione dopo il periodo di prova o la scelta di restare nell’azienda della dipendente. 

Le discriminazioni di genere portano poi a precise scelte aziendali che valutano come prioritariamente sacrificabili le dipendenti che non ricoprono ruoli tecnici, come ad esempio chi lavora nella comunicazione, nonché alla precarietà cui sono esposte le persone LGBT+, di cui il 13% si è visto negare un lavoro in base al proprio orientamento sessuale e il 45% in base alla propria identità di genere.

L’Istat individua tramite le sue indagini ufficiali donne e giovani come le categorie più colpite dalla disoccupazione, guarda caso le stesse considerate non produttive dal capitale, ma sfuggono ai dati dell’Istituto Nazionale di Statistica altri gruppi svantaggiati lavorativamente: chi opera in nero suo malgrado, chi è una persona migrante e in aggiunta ricopre ruoli considerati ancellari e non produttivi come l’assistenza alle persone anziane o disabili.

L’emergenza pandemica in Italia ha mandato all’aria un sistema economico disfunzionale e già in crisi da decenni, a voler essere generos*, e il bisogno di riforme strutturali diventa se possibile più impellente. Serve restituire dignità e supporto al lavoro riproduttivo, all’occupazione di donne, giovani e persone migranti, al tempo delle donne e delle famiglie, alla cultura.

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Le misure di contrasto

Tutto parte dal fare in modo che le donne possano riprendere il proprio tempo e accedere al mondo del lavoro senza il carico totale della cura: si può fare finanziando gli asili nido, incentivando il congedo parentale dei padri economicamente e demolendone il tabù, affermando la parità salariale e sostenendo l’occupazione femminile.

Soluzioni che i femminismi italiani e internazionali propongono da anni e che sono condivisi a livello più ampio. 

Ad esempio, a ottobre 2020 il gruppo Giusto Mezzo, costituito da donne della società civile, ha chiesto l’utilizzo di parte del Recovery Fund – 209 miliardi di euro erogati dall’Unione Europea per fare fronte all’emergenza economica causata dalla pandemia –  a supporto dell’occupazione femminile e contro il divario salariale. I punti programmatici sono stati accolti e sostenuti in parlamento dall’Intergruppo della Camera per le Donne, i Diritti e le Pari opportunità. 

 

Ripensare tutto, riprendersi tutto

Da Twitter: “Howard Zinn, a documentary. First part : Bread and roses”

Tuttavia, questa proposta parte dall’assunto che la produttività intesa come impresa sia imprescindibile, e così la crescita.

Da un punto di vista femminista intersezionale, il concetto di produttività e crescita, in un pianeta in cui le risorse sono sempre meno e in mano alle crisi cicliche sempre più ravvicinate del capitalismo, deve cambiare e includere di nuovo o per la prima volta beni immateriali come la cultura, il tempo personale per se stess* e per chi ci circonda, che permette di affrontare senza ammalarsi di stress lavori di cui spesso ci si deve accontentare. 

Il lavoro riproduttivo e il tempo personale hanno un ruolo fondamentale nella società, lo abbiamo negato per troppo tempo e in questa congiuntura ci si gioca il tutto per tutto. Riprendiamoci ciò che rende le nostre vite piene.