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Disabilità: perché noi femministe dovremmo occuparcene

Paola Giorgetta, medaglia d'oro agli Special Olympics World Games
Paola Giorgetta, medaglia d’oro nel nuoto agli Special Olympics (quotidianomolise.com)

Risale a qualche settimana fa una notizia che mi ha sconvolto e riempito di dolore: una madre ha ritirato dall’asilo la propria figlia perché una delle assistenti che ci lavorano ha la sindrome di Down. Sono seguiti i commenti vergognosi del vicepresidente dell’Ordine dei Medici di Ferrara (“I Down? In cucina, non all’asilo”), che per fortuna l’hanno costretto alle dimissioni.

Trovo questi due fatti gravissimi. Il primo mi colpisce non solo come cittadina che vede calpestato il diritto di tutte e tutti a essere uguali, iscritto nell’articolo 3 della nostra Costituzione, ma mi ferisce profondamente come femminista.

Perché significa che abbiamo tanto lavoro da fare e che nella direzione dell’inclusività e dell’intersezionalità stiamo lavorando poco. E forse nel modo sbagliato.

Facciamo finta di essere tornate e tornati alle elementari. Ora di matematica. Insiemistica. Ve le ricordate? Rappresentiamoci il femminismo come un enorme schema di Eulero Venn, tanti cerchi che si intersecano. Noi tutte stiamo là in quegli spazi, che intrecciano l’essere donne all’essere tante altre cose. Siamo precarie nell’insieme dei precari, lesbiche nell’insieme delle persone lgbti, oppure single, disabili… e così via.

Sembra strano, perché la nostra società ci spinge a considerarci sempre come monadi da una sola etichetta: è facile e comodo ridurre la persona a uno schema semplice. Una parola e zac, sei incasellata per sempre: la magra, la grassa, la down, la lesbica, la frigida…

Certo, vale anche per gli uomini, perché il sessismo capitalista è così che funziona: divide et impera. Ma, in generale, agli uomini va un pochino meglio (e mi fermo subito, parlo di categorie non di casi personali) perché sono meno discriminati almeno per il genere.

Ma anche all’interno del dibattito femminista ci sono categorie che vengono considerate e rappresentate meno, che fanno fatica a far sentire la loro voce. E la colpa è anche principalmente di noi femministe stesse, di noi femministe privilegiate che abbiamo trovato modi e spazi di far sentire la nostra voce, ma che difficilmente usiamo quegli stessi spazi per far emergere le voci delle altre.

Diciamoci la verità: di solito quando parliamo di donne, diamo voce soprattutto ad alcune persone. Quelle che si preoccupano degli stereotipi del corpo, ma se magro o grasso, se mercificato e reificato. Diamo voce alle donne precarie, costrette a stare in bilico in un mercato di lavoro difficile che per te, donna che magari vorresti farti una famiglia, diventa ancora più chiuso. Diamo voce alle donne lesbiche, anche e soprattutto se sono madri lesbiche. Diamo voce alle donne che hanno e vogliono figli o a quelle che non ne vogliono.

Ma ci sono alcune zone di questa intersezione che rimangono in ombra, come le prostitute e le sex worker, le cui voci sono troppo spesso usate a fini di schermaglie ideologiche fra chi ha già conquistato lo spazio per esprimersi. Ci sono voci che sono praticamente cancellate, come quelle delle donne MtF (transgender che hanno effettuato una transizione dal corpo maschile a quello femminile). E quelle delle persone disabili, che faticano a farsi sentire.

Invece le loro battaglie sono anche le nostre: perché combattere contro la discriminazione, significa combattere – ad esempio – anche contro tutto ciò che impedisce a una donna o a un uomo disabile di potersi autodeterminare a suo piacimento, di avere le medesime possibilità di tutte e tutti.

Ma nel dibattito femminista le voci delle disabili faticano a emergere ed è colpa anche nostra, che ci dimentichiamo della loro esistenza, che quando scriviamo raramente abbiamo in mente anche loro.

Dobbiamo fare sì che quello spazio tra insiemi diversi diventi illuminato, dobbiamo farlo nella nostra pratica quotidiana, educandoci, sensibilizzandoci, ma soprattutto permettendo a quelle voci di raccontare le loro esperienze.

 

Ci farebbe un immenso piacere (e sarebbe una grande occasione per imparare) se ci raccontaste le vostre storie e le vostre esperienze su genere e disabilità. Contattateci!