Non è passata neanche una settimana dal suicidio di una 31enne che aveva ottenuto il diritto all’oblio e non nominerò, vittima di slut shaming a causa di un video con l’amante diffuso sul web, e si scopre che l’account della giornalista sportiva Diletta Leotta è stato violato: foto e video privati in cui appare nuda sono rimbalzati di telefono in telefono.
In un’ora le immagini sono state ricevute da centinaia di migliaia di persone, il cognome della donna è diventato argomento di tendenza su Twitter, sui social il link per scaricare le sue foto è stato pubblicato innumerevoli volte. Ovviamente tutto è stato fatto senza il consenso della diretta interessata, che ha sporto denuncia e avviato un’azione legale contro chiunque abbia pubblicato e distribuito le foto.
Questa ennesima violazione della privacy e i tristi fatti di questi giorni dimostrano che è ancora viva la mentalità secondo cui è il branco a decidere che il corpo delle donne è cosa pubblica, che le donne che mostrano la propria sessualità sono colpevoli e che il consenso non esiste.
Foto private, video, corpi, testimonianze di stupri e dettagli sanitari (come nel caso dell’atleta Alessia Ameri, costretta a dichiarare di avere la sindrome di Morris dopo violenti attacchi sul web) passano di mano in mano e di dispositivo in dispositivo con la complicità di tutti.
E’ il caso di Diletta Leotta e della donna che si è suicidata dopo anni di cyberbullismo, della 13enne vittima di violenze sessuali di gruppo per anni nel silenzio della comunità. O ancora della 17enne di cui le presunte amiche hanno filmato e divulgato lo stupro.
I nomi e le immagini diventano pubblici e acquistano ancora più notorietà anche grazie ai giornali, a volte complici.
La mentalità del branco agisce su più livelli. ha permesso che la bambina di Melito di Porto Salvo diventasse un oggetto da passare fra carnefici e che il paese tacesse o addirittura la colpevolizzasse.
Ha fatto sembrare divertente e lontano da sé lo stupro di una coetanea alle sue presunte amiche che, insieme, filmavano e divulgavano la violenza.
Ha fatto circolare i fotomontaggi della pallavolista e l’ha resa oggetto di pettegolezzo.
E’ la stessa forma mentis che ha giustificato la condivisione del video, i meme e la persecuzione “di una troia”, continuata anche oltre la morte, perché una donna che osa avere una sessualità attiva deve saperlo, come va poi a finire.
Ora il branco condivide le foto della giornalista, ancora una volta come se avesse il diritto di disporre delle immagini private di una persona.
Il branco, però, non esiste se i singoli individui si comportano in modo diverso, la mentalità non esiste se nessuno la incarna. Agire in gruppo a livello psicologico assicura una diminuzione dell’eventuale senso di colpa e la spinta alla deresponsabilizzazione del gruppo viene massimizzata dalla mancanza di un oggetto fisico da trafugare o di una persona da deridere vis à vis: lo schermo fa sentire anche i meno coraggiosi al sicuro.
Se si fosse trattato di rubare un album di stampe fotografiche, gli amici che si spediscono foto e video magari ci avrebbero pensato due volte. Così come se avessero dovuto affrontare la persona defraudata di persona. Ora che basta un click l’azione diventa virtualmente senza conseguenze e responsabilità.
E se non si vedono le conseguenze, come ha scritto eloquentemente Hannah Arendt e come hanno dimostrato numerosi esperimenti scientifici, gli esseri umani possono fare di tutto e trovare giustificazioni razionali anche se messi davanti al risultato delle proprie azioni.
A fare da contorno a questo meccanismo di deresponsabilizzazione c’è, come sempre, il doppio standard: quando si parla di sesso, sessualità (e molte altre cose) si nega una sfera privata a chiunque non sia un uomo eterosessuale.
Se sei donna, invece, la violazione della privacy diventa, secondo il branco, un espediente per farti pubblicità. Oppure dovevi aspettartelo perché mostri le tette in tv.
Nella mentalità che sembra farla da padrona in questi ultimi giorni c’è una giustificazione per la sorte delle vittime di ogni tipo di violazione ma nessun moto di coscienza da parte di chi viola la privacy, la vita e il corpo delle donne.
Anzi, il branco permette il rafforzamento di quella mentalità patriarcale che giudica e stigmatizza qualsiasi atteggiamento femminile che riguarda la sfera sessuale: non va bene essere troppo desiderabili ma neanche troppo poco, il sesso non deve piacerti troppo altrimenti sei una troia, però se non vuoi farlo sei una figa di legno.
E se non rispetti il binarismo di genere in te è insita la colpa di essere differente e chiunque ha il diritto di indagare, volere sapere cos’hai di diverso.
Questa sequela di casi legati al bullismo online e offline deve essere fermata con le leggi, come quella decisamente migliorabile sul cyberbullismo che viene discussa in questi giorni e quella proposta sulla penalizzazione del revenge porn, la diffusione di immagini e video pornografici o erotici per ricattare le vittime.
Soprattutto però deve cambiare la cultura: un’azione congiunta a livello educativo deve insegnare a comprendere quali danni si causano e a prendersi la responsabilità delle proprie azioni.
Diletta Leotta, protagonista suo malgrado dell’ennesima vicenda di slut shaming ha rilasciato una dichiarazione tramite la sua avvocata:
«Diletta ha subito una gravissima violazione della privacy, è molto amareggiata ma nello stesso tempo indignata e pronta a gestire questa vicenda. Il suo pensiero è rivolto a ragazze più giovani, magari meno solide, cercando di condividere la sua esperienza sul fatto che chiunque distribuisce con leggerezza una foto privata magari di un amico, di una fidanzata o di una ex senza chiedere il suo consenso commette un reato. Questo è ciò che tutti i ragazzi devono avere bene in mente perché una condivisione su WhatsApp o sui social, che non hanno sistemi di controllo dei materiali che transitano su di loro, diventa incontrollabile e senza possibilità di ritorno. E che la denuncia alla Polizia di Stato è la prima cosa da fare».