Un rapporto dell’Art Directors Club compiuto su un campione di pubblicità italiana illustra quanto sia sessista, nonostante le direttive dell’Unione Europea. Come possiamo agire per costringere le ditte a cambiare comunicazione?
È un fatto che d’istinto chiunque abbia un minimo d’interesse (o di sensibilità) verso la questione di genere ha sempre sospettato: la pubblicità italiana è fortemente sessista. Questo conferma, dati statistici alla mano, lo studio condotto dall’Art Directors Club Italiano, Alma Mater di Bologna e Nielsen Italia. Il quadro che emerge dall’indagine è che, al netto di un genere di comunicazione, quello pubblicitario, dedito al profitto e dunque prono a considerare i corpi come oggetti (la cosiddetta reificazione), il trattamento riservato al genere femminile è più stereotipato di quello riservato agli uomini e propone un modello di donna subalterno all’uomo e spesso con connotazioni decorativo-erotiche (ne parla anche un articolo di DataMedia Hub).
Basta dare uno sguardo alle percentuali per rendersene conto: i maggiori investimenti pubblicitari finanziano campagne le cui protagoniste sono donne, ma queste hanno difficilmente ruoli che vadano al di là dello sfruttamento del loro aspetto fisico (le donne rappresentate come professioniste sono meno del 1%, le madri, che pure rientrano nell’immaginario collettivo, meno del 6). Più del 50% delle donne rappresentate in pubblicità sono lì per mostrare le loro grazie e stimolare l’acquirente, per desiderio (se uomo) o per emulazione (se donna).
Il report sottolinea nelle sue conclusioni come l’immagine data dalla pubblicità non rispecchi la complessità della società italiana (per quanto riguarda le donne neanche lontanamente), ma allo stesso tempo imponga modelli irraggiungibili dai quali le aspettative e lo sguardo sul mondo dei riceventi, specialmente, ma non unicamente, i più giovani, è condizionato se non addirittura formato.
Tutto verissimo, tutto sperimentato sulla nostra pelle. A poco servono i codici di autoregolamentazione o le direttive (mai davvero recepite) dell’Unione Europea. Cosa possiamo fare concretamente per cambiare il modo in cui i marchi rappresentano uomini e donne?
Posto che nel breve termine e senza una trasformazione radicale della società è improbabile riuscire a diminuire il livello di esposizione al messaggio pubblicitario, quello che si può fare è creare anticorpi. Ripartire dall’educazione e dalla cultura, che da una parte significa denunciare certi meccanismi, a voce alta e senza paura, dall’altra insegnare a tutti e soprattutto alle ragazze e ai ragazzi, a guardare con occhio critico e vigile quelle che in apparenza possono sembrare innocue operazioni commerciali.
La crescita di ‘anticorpi del pensiero’ non solo riduce drasticamente il danno di certi messaggi, ma potrebbe indurre, in tempi non particolarmente lunghi, le stesse ditte a cambiare il modo di comunicazione. In fondo è un po’ quello che è successo per la rappresentazione delle coppie omosessuali con il famoso spot della Findus, che ha chiaramente sfruttato le polemiche accadute qualche mese prima riguardo alle dichiarazione del patron di Barilla.
Il mercato è legato a leggi di domanda e offerta: se i boicottaggi sono quasi sempre scarsamente efficaci e pongono problemi di varia natura (non ultimo, in questo caso, l’impossibilità di rivolgersi contro una sola marca visto il costume diffuso), sensibilizzare le persone sul perché certi stereotipi sono deleteri e spingere più voci a criticarli può fare diminuire la domanda o quanto meno ledere alla reputazione di un brand, che per evitare un calo nei profitti, cercherà di porvi rimedio. Il capitalismo non sarà mai etico, ma cercherà di non nuocere a se stesso.
Possiamo (anzi dobbiamo) disobbedire ai suoi aspetti disumanizzanti, denunciarli a gran voce, per ottenere che nell’immediato si possa porre rimedio ai danni da esso provocati sulla società e sugli individui.