fbpx

La sfida del coronavirus: ripensare a noi e alla collettività

La sociologa transfemminista argentina Paula Satta Di Bernardi ha scritto questa riflessione pubblicata originariamente in spagnolo sul sito “L’ombelico del mondo” il 12 marzo 2020. La traduzione e l’adattamento in italiano sono opera collettiva transfemminista di Lorenza Santoro, Valentina Greco, Athena, Sofia Selighini e Nanà Ciannameo, che ringraziamo insieme all’autrice per averla voluta condividere su Pasionaria

coronavirus quarantena femminismo
Illustrazione di Aldana Fiandrino © 2020

Sono una sociologa, lesbica e attivista transfemminista argentina che attualmente frequenta un master in Studi delle donne e di genere presso l’Università di Bologna. Da quando è scoppiata l’emergenza a causa della pandemia del coronavirus, molt* mi chiedono com’è la mia vita quotidiana in questo momento. Credo sia importante descriverla per demistificare il “sei tappata in casa tua”.

Non è vero che non possiamo lasciare le nostre case, ma è vero che ora ci sono anche multe per chi non rispetta la quarantena, quindi “l’essere tappat* in casa” è una realtà che si sta concretizzando sempre più alla luce degli ultimi provvedimenti del governo italiano a fronte della crescita esponenziale dei casi di Covid-19 nei giorni scorsi. Ieri sera sono andata a fare una passeggiata e si sentiva il silenzio, un ossimoro degno di un romanzo distopico.

Sento che la città è pesante, densa; l’ansia e la rabbia sono all’ordine del giorno.

Chi lavora in uffici pubblici ha iniziato a farlo in modalità “home office”, lavorando da casa in tutti i casi in cui è possibile, perché il lavoro produttivo non è stato sospeso e chi opera nel settore privato continua a rispettare l’orario d’ufficio con la limitazione della distanza di un metro tra le persone sul posto di lavoro.

Possiamo chiederci quali misure rispettino la salute della popolazione se una parte di essa è ancora esposta al contagio e/o a contagiare?

Queste misure possono essere estese ad altri territori?

Quale concezione della salute prevale quando le persone vengono allontanate per evitare una malattia?

La realtà è complessa e comprende molti aspetti, una lettura univoca non sarà mai in grado di rappresentare la diversità dei fattori che concorrono ad un problema sociale; però l’importanza di porre domande e di intravedere le diverse problematiche che allo stesso tempo si presentano è un importante cosa da fare.

È necessario essere prudenti nelle modalità di comunicazione.

Non è il virus che viene creato per “coprire” un numero infinito di altri problemi sociali e infezioni endemiche, il coronavirus esiste e negarlo significa essere irresponsabili con noi stess*.

Non “appartiene” nemmeno a un Paese o a un governo – le cause della sua nascita sono ancora oggetto di indagine -, sono invece le misure adottate per evitare il contagio e i modi in cui i media e i gruppi di potere disinformano (o, potremmo dire, strumentalizzano), creando visioni apocalittiche e sensazionaliste, a distogliere  l’attenzione da altri problemi attuali, come ad esempio capita con l’aumento della febbre dengue in Argentina. Anche quando si dichiara l’emergenza del sistema economico mondiale a causa di questa pandemia, continuano a riprodursi stereotipi dell’ “altro contagioso“, che continuano a indebolire i legami di una rete sociale individualista, maschilista e razzista; le forme di dominio capitalistico e patriarcale non scompaiono, anzi, in molti casi si rafforzano (su Pasionaria ne abbiamo parlato in merito all’abilismo in questo articolo, ndr).

 

Coronavirus e disuguaglianze di genere

Dobbiamo partire dal fatto che il contagio non può essere evitato in un mondo globalizzato. Ciò che si può fare è evitare che si diffonda in un numero maggiore di casi prima di trovare una cura. Le limitazioni al movimento, non solo individuale ma anche collettivo, come misure per prevenire il contagio, dovrebbero farci riflettere sui modi di vivere in questo mondo, poiché sappiamo bene che non ci si muove ancora liberamente, anche senza un coronavirus. Come abbiamo detto noi transfemministe in vista dell’impossibilità di realizzare lo sciopero dell’8 e 9 marzo in Italia, non vogliamo tornare alla “normalità” perché la normalità è già ingiusta e disuguale, razzista ed etero-patriarcale.

La paranoia e il controllo sociale ricadono in modo diseguale sulle persone che vivono in questa società. Le misure che non tengono conto della redistribuzione diseguale delle pratiche di cura in condizioni “normali” – senza coronavirus – acuiscono la disuguaglianza nei momenti di crisi, continuando a impattare sulle donne, sulle quali ricade il carico della maggior parte del lavoro riproduttivo (inteso anche come lavoro di cura della famiglia, dell’ambiente domestico e delle relazioni, ndr). Nel caso delle donne migranti o con lavori precari o informali, come quelli legati alla salute o alle pulizie, questa situazione si aggrava ulteriormente anche perché fanno il lavoro di cura a casa e devono continuare a lavorare fuori in condizioni che le espongono al contagio.

Un altro grande problema in questo momento è che molt* bambin* non hanno lezioni perché le scuole sono chiuse. Chi si prende cura di loro in un momento come questo, in cui molt* adult* non hanno smesso di lavorare? Come si riflette su questo problema a livello collettivo? Non è questo il momento di riconoscere che l’accesso alle cure è un problema sociale? Stiamo aspettando un nuovo virus per ripensare le forme di organizzazione sociale, per pensare a chi e in quali condizioni materiali viene accudit* e chi accudisce? Molte madri – donne cis e trans- che sono intorno a me hanno dovuto chiedere una giornata di permesso al lavoro per prendersi cura de* figl* durante le ore che normalmente trascorrono a scuola. Questo è insostenibile per più di un giorno o due, ancora meno se questa circostanza permane per diverse settimane. Stiamo affrontando un problema strutturale.

Inoltre, non tutte le persone saranno in grado di richiedere un congedo o di smettere di lavorare, per il rischio di non ricevere il loro stipendio, e un numero limitato avrà le risorse per pagare una tata a tempo pieno. Per non  parlare delle implicazioni di questo problema quando stiamo già affrontando una situazione disperata in termini di salute mentale e, senza soluzioni che tengano in considerazione questa prospettiva, aumenta il cosiddetto “carico mentale” che le donne, lesbiche e trans soffrono quotidianamente per il fatto di essere coloro che gestiscono maggiormente l’organizzazione della cura (oppure dell’assistenza).

A questo punto, ritengo importante fare un chiarimento. Una lettura femminista di questa situazione dovrebbe fornire strumenti per rendere le variabili di analisi più complesse e per essere consapevoli delle relazioni di potere che si intersecano negli effetti delle misure adottate per evitare il contagio. Gli slogan che fanno comparazioni tra la quantità di femminicidi e le morti per coronavirus possono essere controproducenti, non perché non siano utili nel rendere visibile che alcuni temi abbiano portata globale, diffusione e risorse economiche e simboliche funzionali a determinati interessi, ma perché la gravità di una pandemia non dovrebbe “competere” con problematiche sociali come i femminicidi.

In primo luogo, i femminicidi non sono una patologia come il coronavirus. Fare questo paragone rafforza l’idea del femminicidio come un omicidio agito da maschi “malati” riducendolo a un problema individuale. Ormai sono anni che il movimento femminista e transfemminista in tutto il mondo tenta, invece, di spiegarli come un fenomeno sociale, visibilizzando i diversi piani della violenza di genere che sono parte strutturale del dominio maschile, legittimati da un sistema sociale, economico politico e simbolico eteropatriarcale.

In secondo luogo l’associazione tra femminicidi e coronavirus riduce il virus ai casi di morte per lo stesso, quando invece non tutte le persone che contraggono  Covid-19 muoiono. Questo è un dato importante per non continuare a diffondere paura e, al contrario, rassicurarci in un momento in cui è cruciale tenere a bada la paranoia sociale. I casi gravi che portano a morte sono per lo più collegati a fattori di rischio individuali, come un sistema immunitario compromesso, l’età o patologie croniche preesistenti.

 

Photo by Dimitri Karastelev on Unsplash

 

Privilegi al tempo del coronavirus

Ringrazio le mie compagne e amiche di Non Una di Meno Bologna perché sono la mia casa qui.

Senza di loro, queste riflessioni non sarebbero possibili, non solo perché sono il frutto di assemblee e momenti di confronto, ma anche perché senza il loro supporto e la loro cura sarebbe impossibile evitare che il panico circostante mi destabilizzi totalmente.

Sottolineare l’importanza dei legami e di vedersi è fondamentale in questo momento di isolamento e psicosi collettiva. Parlo  a partire dalla mia esperienza personale-politica, dal mio desiderio di rispondere a* amic* in Argentina, dall’intento sociologico di tracciare un’analisi più complessa rispetto a quella sensazionalista, dalla mia quotidianità che si è interrotta a causa della sospensione della frequenza universitaria e dall’ansia generata dal seguire le lezioni e fare gli esami online.

Sto cercando di non farmi abbattere fisicamente, mentalmente ed energeticamente da questa situazione che in alcuni momenti risulta insostenibile. Nonostante ciò, scrivo da una posizione privilegiata. Sono una studentessa universitaria, ho una borsa di studio per dedicarmi a tempo pieno al master che sto frequentando qui a Bologna, e questo mi permette di avere il tempo e lo spazio per sedermi a leggere e a scrivere.

Non voglio dare una versione univoca e verosimile, ma piuttosto condividere qualche riflessione, trovare modi per esorcizzare la paura.

Riconoscere i miei privilegi non significa che debba negare ciò che sento. In alcuni momenti, sia grazie ad alcuni strumenti per lavorare su di me, come lo yoga, la terapia transpersonale, la meditazione, sia grazie alle voci amiche che mi accompagnano nelle loro diverse forme, raggiungo la calma, posso ridere di me e ironizzare su ciò che succede. Tuttavia, in questi ultimi giorni è difficile gestire l’ansia, la paranoia collettiva, e non incastrarsi nella sensazione di non potersi muovere.

Ci sono momenti in cui mi sento rinchiusa, oppressa dal bombardamento mediatico e dall’incertezza, come chiunque viva o sia in Italia in questo momento. Ciò implica riconoscere i diversi modi di percepire la malattia e l’impatto differenziale sui gruppi sociali in una struttura sociale diseguale.

È necessario sapere riconoscere le limitazioni che questo momento storico impone alle teorie e alle esperienze vissute, per non ripetere i discorsi abilisti, stigmatizzanti e individualizzanti. Non sminuire o svalutare la vita delle persone adulte tra i 62 e i 95 anni, cioè la fascia di età dell’82% delle persone uccise dal virus (dati della Protezione Civile Italiana), o delle persone con immunodeficienze, perché equivale a dire che alcune vite contano e altre no, equivale a riprodurre acriticamente discorsi che banalizzano problemi sociali legati non soltanto alla salute, ma più in generale alla vita delle persone adulte.

 

La sfida collettiva del coronavirus

Questo momento è un invito a pensare in altri termini, più comprensivi e collettivi,  la salute e la cura, a smettere di normare i corpi e immaginare politiche che si adattino alle nostre vite pluridiverse. È un momento per riflettere sulla nostra condizione umana, a cosa succede quando non possiamo controllare situazioni che ci appaiono inaspettate, che sono correlate ai nostri modi occidentali di relazionarci con la morte e alla possibilità di accettare la finitezza delle nostre vite.

In questo senso il coronavirus è una grande sfida per una società abituata a vivere nel capitalismo della produttività e del successo. Non c’è modo di negare che viviamo interconness*, e questa è una cosa alla quale possiamo pensare da diverse prospettive geopolitiche, eco-olistiche, transfemministe, di solidarietà internazionalista, ambientaliste.

La sfida più grande oggi è riflettere su quelle persone che si trovano in situazioni meno privilegiate e sull’impatto non solo del virus, ma anche della paura e degli effetti di politiche che aumentano l’individualismo, accentuano la precarietà della vita e acuiscono i compiti di assistenza femminilizzati e per questo sottovalutati e/o malpagati.

Occorre fare una lettura complessiva di questa pandemia: che conseguenze a lungo e a medio termine avranno su di noi l’isolamento, il pressante controllo del nostro bisogno di legami e la virtualità compulsiva?

Serve molta onestà e consapevolezza dell’importanza adesso di non continuare a prendere decisioni personali e collettive condizionate dalla paura, ma di legare tali decisioni alla possibilità di connessione con la nostra condizione umana e alla collettivizzazione delle cure.