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Coronavirus, sex worker tra le più vulnerabili: come sostenerle

Le lavoratrici e i lavoratori del sesso hanno dovuto interrompere le attività come altre categorie, ma le loro prestazioni in Italia non sono riconosciute come lavoro: non possono accedere agli aiuti statali per l'emergenza. Lanciato un crowdfunding

 

L’immagine realizzata per il crowdfunding lanciato in Italia a favore delle sex worker in difficoltà

Dal 9 marzo tutta Italia è diventata “zona rossa”. Il Governo invita a rimanere in casa e uscire solo per necessità: per lavoro, per fare la spesa e per motivi di salute. L’invito è ripetuto quotidianamente, più volte al giorno, a gran voce dalle auto della polizia che si muovono nei quartieri quasi deserti. Poche le persone ancora in giro. Tra queste le sex worker, termine con cui si definiscono le persone che lavorano offrendo prestazioni sessuali di vario tipo  (per semplicità di lettura uso il femminile, ben consapevole che tra chi svolge sex work non ci sono solo donne, ma anche uomini, persone trans e non binarie; per lo stesso motivo per riferirmi a chi paga per usufruire di queste prestazioni userò il maschile, anche se tra loro non ci sono solo uomini).

Delle sex worker fermate dall’inizio della quarantena si parla in due modi: ridicolizzandole o vittimizzandole. Nel primo caso, con toni canzonatori, si deridono le motivazioni fornite ai posti di blocco, dal “cercavo asparagi” al “sto provvedendo al mio sostentamento“, o si inneggia al coronavirus poiché salvaguarda “i matrimoni da possibili tentazioni“. Nel secondo caso, la retorica, in particolare dei gruppi cattolici e abolizionisti (cioè favorevoli all’abolizione della prostituzione), è pregna di toni paternalisti e caritatevoli: le sex worker sono vittime che stanno ancora lavorando poiché obbligate dagli sfruttatori e le uniche soluzioni applicabili sono l’inserimento di queste lavoratrici in programmi di “redenzione” attraverso la fuoriuscita dal sex work.

In entrambi i casi, l’autodeterminazione delle sex worker, così come la loro voce e le loro richieste, sono invisibilizzate.

Come per molte altre categorie lavorative anche per le sex worker la quarantena e il lockdown dovuti al coronavirus hanno portato a una drastica perdita di reddito,  a causa dell’impossibilità di uscire, del calo dei clienti dovuto al rischio di contagio, e della chiusura degli spazi di lavoro come per esempio gli hotel e i sex club. “Alla data odierna – scrive Punterforum – i siti internet di settore si sono progressivamente desertificati, niente annunci, niente novità, niente massaggi, locali chiusi. La nostra community, seppure sempre molto frequentata, ha subito un calo drastico delle visite. D’altronde la gente è paradossalmente meno libera almeno in termini di mobilità e spazi”.

Quello che cambia per le sex worker è che il sex work non è riconosciuto né percepito come lavoro, perciò le lavoratrici sessuali non hanno la possibilità di muoversi per motivi comprovati di lavoro né l’accesso alle tutele che alcune categorie hanno ottenuto grazie alle misure economiche stanziate con il decreto “Cura Italia”.

La pandemia sta rivelando, anche in questo caso, l’inadeguatezza di un sistema culturale e legislativo che non considera la prostituzione un lavoro e non tutela le persone che la esercitano. Per molte di loro non lavorare significa non riuscire a provvedere al proprio sostentamento e a quello della propria famiglia. Significa l’impossibilità di pagare l’affitto e il rischio concreto di esser sfrattate.

A questo proposito il Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute e l’Associazione Radicale Certi Diritti hanno indirizzato al Parlamento e al Governo un appello per chiedere “misure di sostegno per lavoratrici e lavoratori sessuali”. L’appello italiano fa eco a quello di Icrse, il Comitato internazionale per i diritti de* sex worker in Europa, e di Tampep, la rete europea per i diritti de* sex worker migranti, che chiedono ai governi misure concrete per chi vede aggravata la propria condizione di vulnerabilità e marginalità nella società con una particolare attenzione per quelle sex worker che “hanno già a che fare con alti livelli di emarginazione ed esclusione sociale, incluse persone che vivono in povertà, migranti e rifugiati, persone trans o consumatori di droga”.

“Se l’emergenza virus dovesse durare a lungo – dice Giulia Zollino, operatrice di Unità di Strada – molte persone sarebbero in gravi difficoltà economiche e nessuno le aiuterebbe. Non è ipotizzabile neanche lasciare l’Italia per continuare a lavorare in altre nazioni: il virus è ovunque”.

La mancanza di fondi per il sostentamento dei bisogni di base spinge molte sex worker ad assumersi rischi sanitari elevati per potersi assicurare il reddito. Ciò è ancora più problematico in un momento in cui l’accesso ai servizi sanitari è sempre più difficoltoso a causa della loro chiusura o della diminuzione delle loro attività per concentrare gli sforzi contro il coronavirus. La situazione è inoltre aggravata dalle difficoltà che già quotidianamente persone senza documenti, come le persone migranti irregolari, affrontano nel godimento del diritto alla salute.

L’aumento dei controlli per le strade mette a rischio chi è in situazione di irregolarità, privo di documenti, o chi, come le persone trans, ha documenti non conformi. Inoltre, in mancanza di reddito, sostenere la spesa della sanzione economica prevista dalle direttive è praticamente impossibile.

Ovviamente non tutte le forme di sex work sono in crisi: quelle che non prevedono contatto con il cliente stanno continuando e, anzi, il mercato della prostituzione, da sempre flessibile, in questo periodo si sta spostando sul digitale. Non per tutte le persone però spostarsi nel mercato virtuale è possibile, per mancanza di un conto corrente su cui ricevere il pagamento, di strumentazione tecnologica adeguata, di connessione a internet.

Le problematiche che colpiscono in questo momento le sex worker sono dovute anche al peso delle leggi miopi che negli anni hanno criminalizzato il lavoro e i clienti rendendo in realtà più insicura e rischiosa la professione, passando “dalle politiche sociali […] alle politiche penali, dal welfare al prisonfare“. Mentre, infatti, nei paesi dove il sex work è regolato come lavoro si può sperare che i governi mettano in campo degli aiuti economici come per gli altri lavori, è evidente che da noi e dove non è riconosciuto, continuerà a essere totalmente ignorata l’emergenza in cui si trovano queste persone.

Red Umbrella March for Sex Work Solidarity, Vancouver (Canada), 2016 | Foto di Sally T. Buck

 

Noi cosa possiamo fare?

In moltissimi Paesi di tutto il mondo le organizzazioni di sex worker hanno preso parola in vari modi.

In Italia il collettivo transfemminista di sex worker e alleat* Ombre Rosse, insieme agli/le operatrici/ori del sistema nazionale antitratta e ad altre reti e soggetti del civismo attivo e dell’auto-organizzazione delle sex worker, ha lanciato la campagna di crowdfunding per sostenere le lavoratrici sessuali più colpite dall’emergenza: “La maggior parte delle e dei sexworker – si legge sulla pagina Facebook dell’iniziativa “Covid19-Nessuna da sola-Sosteniamo le sexworker” – non è in grado di accedere alle prestazioni sociali istituite come misure di emergenza dal Governo. È un momento di disperazione e di paura: molte delle giovani sex worker donne e persone trans sono migranti, sole e senza una rete familiare a cui far riferimento; molte altre sono madri e con il loro lavoro sostengono tutta la famiglia. In queste settimane e sempre di più nelle prossime, l’emergenza che stiamo vivendo sta spingendo sull’orlo del baratro molte/i di loro, dando origine a situazioni di disagio e povertà sempre più gravi. E sarà sempre peggio”.

Altre realtà nazionali e internazionali hanno stilato linee guida e dedicato linee telefoniche d’emergenza disponibili 24 ore su 24 (in Italia lo sta facendo per esempio il MIT di Bologna al numero +39 339 721 9826). In particolare sul sito Red Umbrell Fund si può trovare l’elenco dei gruppi di sex worker che si sono attivati in Europa e non solo per sostenere le lavoratrici durante questo periodo.

Linee guida dell’African Sex Workers Alliance | aswaalliance.org

Se non possiamo permetterci di donare o di pagare per la pornografia di cui usufruiamo, possiamo diffondere questi e altri strumenti di supporto alle sex worker e possiamo usare questo periodo di quarantena per informarci sul sex work e la sua storia, per ascoltare le voci delle protagoniste di questa lotta, per smettere di usare la parola “puttana” come un insulto, per lavorare al fine di decostruire gli stereotipi a cui ci hanno educat* e cominciare a contribuire attivamente a combattere lo stigma e la puttanofobia che colpiscono questa categoria di lavoratori e lavoratrici.