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Congedo di maternità: possibilità di scelta o strumento di ricatto?

 

Photo by rawpixel on Unsplash

D’ora in poi non sarà più obbligatorio andare in congedo di maternità durante l’ultimo mese di gravidanza.

Il nuovo congedo di maternità permettera alle donne che lo vogliano e dietro certificato medico di idoneità di rimanere a lavoro fino al nono mese di gravidanza (in linea teorica fino al giorno prima del parto), per poi cumulare il periodo di cinque mesi a disposizione dopo la nascita della bambina o del bambino.

Sulla carta, sembra un cambiamento che delega completamente alla donna la possibilità di scelta. Perché una donna in salute non dovrebbe lavorare finché se la sente? Questa sembra essere la logica della legge.

Il risvolto, in realtà, potrebbe non essere così roseo.

Se il congedo di maternità è un diritto acquisito per chi ha il tanto agognato “posto fisso” e anche per alcune categorie di precari, cioè quelli del settore pubblico, la stessa cosa non si può certo dire per i precari del settore privato.

Sappiamo dolorosamente tutte e tutti come la maternità sia spesso il terreno di scontro tra precaria e datore/datrice di lavoro, dalle domande imbarazzanti e improprie durante i colloqui (“ha un fidanzato?” “ha intenzione di avere figli?”) alla pratica illegale, ma largamente diffusa, delle dimissioni in bianco.

Se questa possibiità esiste, come sarà possibile garantire che rimanere al lavoro fino al nono mese sia una scelta e non un’imposizione, magari per poter vedere il proprio contratto rinnovato?

Un datore di lavoro, infatti, potrebbe avere vari interessi nel costringere la donna a lavorare fino all’ultimo, magari per programmare meglio carenze di personale o, peggio ancora, per arrivare fino alla naturale scadenza del contratto a tempo determinato. O ancora, rimanere fino all’ultimo potrebbe essere una nuova clausola, affine alle dimissioni in bianco, per riuscire a essere assunte.

A farne le spese, insomma, sarebbero soprattutto le donne precarie, le più fragili nel mercato del lavoro. L’obbligo di astensione dal lavoro nelle settimane precedenti il parto, infatti, non era pensato certo come una norma restrittiva della libertà femminile, ma come una tutela per chi è in posizione più debole in un rapporto di lavoro, cioè la lavoratrice.

Inoltre, anche se la norma avrà una ricaduta più immediata sulle lavoratrici precarie, è una testa d’ariete per andare a minare anche la posizione delle libere professioniste e delle lavoratrici con contratto a tempo indeterminato.

Perché, invece di rendere più difficile conciliare lavoro e cura e rendere l’attività lavorativa delle donne più difficile e precaria, non si è pensato a un vero congedo di paternità, lungo più dei ridicoli cinque giorni e obbligatorio per tutti i nuovi padri?

E allora si insinua un pensiero malevolo: che nei progetti del governo la nuova legge sul congedo di maternità serva a rendere più instabile la posizione delle lavoratrici e, anzi, a disincentivare il lavoro delle donne tout-court.

D’altronde è lo stesso governo che sta cercando di minare su ogni fronte i diritti delle donne, che rende più complesso e dispendioso il divorzio grazie al d.d.l. Pillon, non facendo nulla per arginare l’obiezione di coscienza alla legge 194, che promuove un Decreto Sicurezza che butta per strada anche donne e bambini, che promuove l’operazione Codice Rosso senza concertare misure contro la rivittimizzazione delle vittime di violenza con la rete DiRe, che premia con la terra le donne che fanno più figli, relegandole al ruolo di fattrici. Un governo il cui Ministro dell’Interno, infine, dice di essere contro la violenza di genere, ma si scaglia con livore contro due giovani donne, ree di averlo criticato.

Mala tempora currunt.