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«Fino a che la dignità diverrà un’abitudine»: le donne cilene hanno vinto la paura

Il 26 aprile si sarebbe dovuto tenere in Cile il referendum costituzionale, poi rimandato a ottobre a causa della pandemia. Pubblichiamo un reportage di chi in Cile ha vissuto e ha incontrato le donne che stanno portando avanti una rivoluzione

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Murales sulle pareti del GAM a Santiago del Cile © Irene Schöfberger

L’8 marzo scorso, due milioni di donne e ragazze hanno manifestato a Santiago del Cile in occasione della Giornata internazionale della Donna. È stata la manifestazione femminile più grande mai registrata in Cile.

Eppure, è solo un fermo immagine di un processo più lungo, iniziato già da alcuni anni e rafforzatosi a partire dal 18 ottobre 2019, quando milioni di persone cilene hanno iniziato a scendere in piazza. Con cori, coreografie e cartelli colorati, le partecipanti al corteo dell’8 marzo hanno protestato contro la repressione violenta delle manifestazioni degli ultimi mesi, che secondo molti osservatori internazionali le hanno esposte a violenze di genere.

Hanno soprattutto rivendicato a gran voce l’introduzione di cambiamenti che permettano una maggiore equità nelle famiglie, nei luoghi di lavoro, negli ospedali e nei palazzi di governo del paese. Le loro rivendicazioni sono parte di una lotta più grande per una maggiore uguaglianza sociale e per una migliore definizione dei confini tra politica ed economia: il significato del loro impegno trascende i confini cileni.

«Io sono stata giovane durante la dittatura militare», mi dice Anna (tutti i nomi delle testimoni sono di fantasia per tutelare la loro privacy) mentre ripone degli avocado in una busta di plastica nera. Parla lentamente, con attenzione e con fermezza. Si capisce che le sue parole sorgono da una lunga riflessione.

«Noi siamo cresciute con la paura. E con essa sono riusciti a bloccarci per anni»

Anna ha un piccolo negozio di frutta e verdura nel centro di Santiago. Fuori dal negozio, sulle pareti, scritte, murales e poster si sovrappongono. Testimoniano l’intenso processo di riflessione in atto anche nel quartiere. Siamo vicine alla piazza dove si concentrano le proteste. Prima si chiamava plaza Italia. Ora, invece, molti cileni la chiamano plaza Dignidad, per sottolineare il loro proposito di continuare a protestare «fino a che la dignità diverrà un’abitudine».

Ho conosciuto Anna quando abitavo in questo quartiere, quasi dieci anni fa. Prima che tutto questo iniziasse, mi aveva raccontato che aprire questo negozio le era servito a emanciparsi dalla famiglia. A potere decidere della propria vita con più libertà. Da novembre, regala ai ragazzi che partecipano alle manifestazioni delle borse con della frutta, per sostenerli mentre chiedono che tutta la popolazione cilena possano vivere con più libertà e dignità. Su uno sgabello del locale oggi c’è Elisabeth. Ha 17 anni e ha partecipato alle manifestazioni fin dal primo giorno. Ha continuato a farlo anche dopo essere stata portata in commissariato, una sera, e nonostante quel ricordo le faccia ancora male.

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Murales sulle pareti del GAM a Santiago del Cile © Irene Schöfberger

Anche i figli di Anna partecipano alle manifestazioni, ma come soccorritori volontari. Spesso, infatti, i cortei iniziano in forma pacifica, ma sfociano in scontri violenti. Le forze dell’ordine attuano una repressione violenta. Secondo l’Istituto Nazionale per i Diritti Umani, da ottobre ci sono stati 3.838 feriti. Molti di loro sono stati colpiti da pallottole, lacrimogeni e percosse, 460 persone hanno riportato lesioni oculari. È un record mondiale: non è mai successo, in nessun paese, che così tante persone perdessero un occhio o la vista. Neppure in Palestina. Per questo, ai visi sui murales e sui poster manca spesso un occhio.

Per chi è stato ferito non è sempre facile ricevere delle cure. Non sempre i feriti riescono a raggiungere i punti di pronto soccorso. Non sempre possono permettersi cure mediche ufficiali. E non sempre il bisogno di essere curati è maggiore del timore di essere denunciati. Per questo, negli ultimi mesi sono nati dei gruppi di soccorritori volontari. Anche i figli di Anna prestano le prime cure ai feriti, siano essi manifestanti o carabinieri, e li conducono ai punti di primo soccorso. Quando Anna ne parla, leva il viso. Forse è orgoglio. Forse, dignità. «Quello che altre madri mi chiedono spesso è se non ho paura. All’inizio ne avevo molta. Poi ho pensato che se io e le altre donne della mia generazione siamo riuscite a crescere dei figli capaci di superare la paura che ci ha bloccato tanto a lungo, abbiamo già vinto».

Che storie contengono le statistiche dei feriti pubblicate regolarmente dall’Istituto Nazionale per i Diritti Umani? Per capirlo, il 2 marzo partecipo a una riunione delle ragazze del gruppo di discussione Rosal Organisado. È una serata mite di fine estate, le ragazze parlano accucciate sul marciapiede della calle Rosal. In lontananza si sentono i cori di alcuni manifestanti. Nel corso della serata, vedremo arrivare alcune persone che corrono per scappare agli scontri. Alla fine della riunione, l’aria del quartiere sarà piccante di lacrimogeno e le sue vie ospiteranno gli ultimi fuochi delle barricate. Ma la calle Rosal, una via cieca, ci terrà al riparo mentre discutiamo.

«Donne e liceali sono stati i due gruppi più attivi nelle proteste iniziate in ottobre», raccontano le ragazze. Sono stati anche i più esposti alla repressione.

Donne, uomini, bambine, bambini e persone Lgtb+ hanno sofferto violenze sessuali, quali stupri, denudazioni, minacce, percosse e umiliazioni. Molti giovani e adolescenti sono stati feriti o portati in commissariato, spesso in forma arbitraria. Lo riporta anche un rapporto dell’Alto Commissariato ONU per i diritti umani.

Messaggi lasciati dai manifestanti sulle pareti del GAM a Santiago del Cile © Irene Schöfberger

Ripenso a Elisabeth, la ragazza che ho incontrato nel negozio di Anna. Al primo sguardo, mi era parsa molto più piccola dei suoi 17 anni. Portava la divisa della sua scuola, con una gonnellina scozzese e una camicetta bianca. Degli occhiali con le stanghette fucsia. I capelli lunghi e ricci le coprivano gli occhi timidi, ma molto vivi. Poco dopo, mi ha raccontato di quando la polizia l’ha portata in commissariato. «Cercavano di farmi salire sul furgone, ma io mi divincolavo. Allora mi hanno sollevato la maglietta davanti a tutti. Mi sono sentita all’improvviso molto fragile» Fa una pausa, sembra che voglia scusarsi di essere stata fragile. «E così sono riusciti a vincermi».

Quando racconta il tragitto verso il commissariato e le ore successive, lo fa come un’adolescente. Ma potrebbe essere diverso? Mi dice più e più volte che a insultarla e a umiliarla sono state proprio delle donne. Come per cercare di convincere me – e se stessa – che anche una donna può fare questo. Lei che da piccola sognava di diventare carabiniere. Mi spiega l’umiliazione provata. Il senso d’impotenza quando le hanno fatto asciugare la bava che le era caduta sul pavimento del furgone in un attacco di panico. La difficoltà di farlo con i polsi ammanettati. Ha un’età in cui la paura può sembrare ancora da giustificare. Poi dice che per vincere la paura cantava “Volver a los 17”, tornare ad avere 17 anni, di Violeta Parra. È una canzone d’amore e nostalgia per un’età di stupore. Cantata da una ragazza spaventata che di anni, quella sera, ne aveva proprio 17. Altre donne hanno vissuto esperienze ancora più traumatiche.

Il 14 novembre, la cantante cilena Mon Laferte ha protestato contro la repressione violenta in atto nel suo paese esponendo il suo petto nudo ai Latin Grammys. Su di esso aveva scritto “In Cile torturano, stuprano e uccidono”. Tuttavia, è stato il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza di genere, che l’attenzione mediatica globale si è destata. Il collettivo femminista Las Tesis ha eseguito la performance “Un violador en tu camino”, con cui ha negato che la colpa della violenza di genere sia delle donne che la subiscono. Performance presto ripresa in tutto il mondo.

E tuttavia, è contro molto più della violenza di genere che protestano le cilene che sono scese in piazza l’8 marzo. Protestano perché, rispetto ai loro concittadini maschi, hanno un accesso molto minore a opportunità economiche e a processi di decisione politica. Secondo le ragazze del Rosal Organisado, tuttavia, il problema non sta soltanto nelle diseguaglianze di genere. Nonostante il Cile sia uno dei paesi più ricchi dell’America Latina, è anche uno dei più disuguali. Per questo le proteste iniziate il 17 ottobre per un aumento del prezzo della metropolitana di 30 centesimi sono cresciute tanto rapidamente. “Non sono 30 centesimi. Sono 30 anni”, gridano le scritte sulle pareti di Santiago e altre città cilene. Trent’anni di fortissime disuguaglianze sociali ed economiche, ulteriormente esasperate da una recente crisi economica che ha fatto aumentare i prezzi di molti generi di prima necessità. Che per molti cileni erano già carissimi. Un biglietto della metropolitana costa attualmente 800 pesos (0,85 euro), mentre il salario minimo è di 320.500 pesos lordi (341 euro).

Già in passato i cileni avevano protestato. Nel 2011, migliaia di studenti avevano richiesto a gran voce un miglioramento dell’educazione pubblica. Allora, il governo aveva introdotto alcuni cambiamenti, ma aveva rifiutato riforme più sostanziali sulla base della costituzione in vigore. Emanata da Pinochet nel 1980, tale costituzione prevede che lo Stato possa erogare servizi solamente qualora attori privati non vogliano o possano erogarli. Per questo, in Cile settori essenziali quali educazione e sanità sono ancora largamente affidati a imprenditori privati. Tale sistema di libero mercato, tuttavia, perpetua le diseguaglianze economiche e sociali presenti nel paese. È figlio delle politiche economiche di liberalizzazione e privatizzazione introdotte durante la dittatura dall’allora ministro José Piñera, fratello di Sebastian, l’attuale presidente del Cile.

In Cile, politica ed economia sono da molto tempo due discipline praticate da poche famiglie. Se i cileni sono scesi in piazza, è anche per esprimere la loro frustrazione contro una ristretta classe sociale che trattiene il potere politico e imprenditoriale del paese da decadi. E tuttavia, le aspre proteste dei cileni sono riuscite a farsi sentire. Poche settimane dopo l’inizio delle proteste, il parlamento ha sottoscritto un accordo per la pace e per una nuova costituzione. Ha indetto un referendum per permettere ai cileni di decidere se cambiare o no la costituzione in atto. Era previsto per il 26 aprile, ma è stato posticipato al 25 ottobre a causa della pandemia di coronavirus.

Nelle proteste sono emerse nuove relazioni di vicinato e di solidarietà locale. Gli abitanti delle vie vicino a plaza Dignidad hanno imparato a conoscersi. Qualcuno dice che il quartiere è divenuto un villaggio. Non è sempre stato così. Forse si può capire la sua evoluzione guardando al Centro Cultural Gabriela Mistral (GAM), il suo palazzo più celebre. Elisa, una ragazza del Rosal Organisado, mi racconta che durante la dittatura era stato utilizzato come centro di tortura. La gente che ci viveva vicino aveva poi conservato l’abitudine di farsi gli affari propri. Diffidare dei vicini. Nel 2010, il centro venne trasformato in un centro culturale e artistico. Un’apertura in tono con il carattere bohémien e cosmopolita che aveva allora il quartiere nel quale mi ero appena trasferita. Nel 2020, il GAM rimane un centro culturale e sociale. Il sindacato dei suoi dipendenti ha però deciso di aprire le sue porte ai soccorritori volontari, che vi hanno creato un centro di pronto soccorso. Le pareti esterne del GAM hanno presto ospitato migliaia di scritte, lettere e oggetti. Sono tracce dei sogni e della rabbia di milioni di cileni.

Chi vive nella zona ha creato anche molti gruppi di discussione. Uno di essi è proprio il Rosal Organisado, nato come un’iniziativa di mutuo aiuto presto estesa a rivendicazioni più generali. Un altro è quello delle soccorritrici volontarie che fanno base al GAM. Forse meglio di altri possono aiutarmi a capire la solidarietà sorta negli ultimi mesi, mi dicono nel quartiere. Ci incontriamo in un bar, un pomeriggio di sole. Fa caldo e beviamo acqua con limone e menta. Mancano due giorni alla manifestazione dell’8 marzo e loro sono molto indaffarate con le preparazioni. Sono però anche molto gioiose, si vede che sono amiche. Dicono che per loro aiutare i manifestanti feriti è un modo di sostenerli nella loro lotta per una maggiore uguaglianza sociale. Nonostante i rischi.

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Soccorritrici volontarie a Santiago del Cile © Macarena de la Fuente

«Sto imparando molto e sento di stare dando un sostegno sanitario e psicologico importante alla gente. Però mi sento costantemente in pericolo. Abbiamo notato un’ostilità aperta da parte della forza pubblica, ci sono stati spari e attacchi. Temo di perdere la vita o qualche parte del corpo, che m’investano o di ammalarmi gravemente. C’è anche il rischio che la situazione possa peggiorare e che detengano noi o un nostro familiare, con qualche scusa», racconta la soccorritrice che porta il numero 70. Nel mentre una di loro viene avvisata per telefono che i carabinieri hanno appena investito suo fratello in plaza Dignidad e un pomeriggio allegro in un bar si tinge di inquietudine e spavento.

Distinguere rivendicazioni femminili e rivendicazioni sociali è impossibile

Su questo tutte sono d’accordo: serve un miglioramento della rappresentazione politica di diversi gruppi sociali, quali donne, indigeni e persone Lgtb+. «Solo quando avremo una rappresentazione politica che riesca davvero a riflettere questa diversità, potremo iniziare a parlare di leggi e di una nuova costituzione», sottolinea una ragazza del Rosal Organisado. Cosa vogliono le cilene? Che lo stato intervenga in ambiti ora largamente gestiti da privati: educazione, salute, previdenza sociale, abitazione e accesso all’acqua e ad altre risorse naturali.

In mancanza di regole pubbliche chiare ed eque, al momento molte bambine e donne cilene pagano la loro assicurazione medica molto più dei loro concittadini maschi. Quando una coppia cilena ha un figlio, il costo del parto viene addebitato soltanto alla madre. Tali diseguaglianze si inseriscono in un contesto in cui molti cileni devono attendere anni per avere accesso a delle cure mediche specialistiche. L’aborto rimane illegale, mentre il divorzio è stato introdotto soltanto nel 2004. Ulteriori sfide permangono in ambito lavorativo: mentre fino ad alcuni anni fa i datori di lavoro potevano richiedere alle potenziali dipendenti di sottoporsi a un test di gravidanza, possono ancora chiedere loro dettagli sulla loro situazione sentimentale. Inoltre, le donne continuano ad avere poco accesso a professioni ad alto reddito e a venire pagate meno dei loro colleghi. Negli anni, tali diseguaglianze hanno condotto molte donne appartenenti a ceti bassi e medio-bassi a indebitarsi.

Non si tratta solo di approvare leggi che garantiscano equità. A inizio marzo, ha destato scalpore il commento del presidente Sebastian Piñera all’introduzione della legge che allarga la definizione di femminicidio anche agli omicidi commessi da compagni non conviventi con le loro vittime: «Non sono soltanto gli uomini a volere commettere abusi, ma anche le donne a essere nella posizione di subirle». Secondo una delle ragazze del Rosal Organisado, «questo dimostra che, in fin dei conti, nonostante venga adottata una legge, rimane presente una società patriarcale e maschilista che ne impedisce l’attuazione». La soccorritrice numero 78 aggiunge:

«Bisogna rimettere in discussione una visione della donna come oggetto di consumo e come limitata a ruoli domestici. E l’educazione dei figli va ripensata».

Murale sulle pareti del GAM a Santiago del Cile (Mon Laferte ai Latin Grammys) © Irene Schöfberger

In novembre, due cileni su tre appoggiavano le proteste. In gennaio, la popolarità di Piñera era scesa al 6%. Ma le difficoltà non mancano. Il governo ha confutato la validità del rapporto dell’Alto Commissariato ONU per i diritti umani. La repressione è aumentata. Nei quartieri benestanti, altri manifestanti si mobilizzano contro il referendum costituzionale. A fine marzo, la pandemia di coronavirus ha indotto anche il governo cileno ha dichiarato un coprifuoco. La prima sera di quarantena le forze dell’ordine hanno cancellato le scritte dei manifestanti da plaza Dignidad. Hanno spogliato anche le pareti del GAM. Per la prima volta da mesi, la grande alameda che vi conduce rimane vuota. Vuote anche le vie del quartiere. Lo stato non ha ancora introdotto aiuti economici per i lavoratori indipendenti come Anna, che ora non possono più guadagnarsi da vivere. Alle famiglie più vulnerabili ha offerto soltanto un assegno una tantum di 50.000 pesos (circa 53 euro). Il referendum è stato rimandato. Ancora non si sa quanto durerà questa pausa e cosa succederà dopo. Eppure, un’altra scritta che si legge spesso nel quartiere è: “Ci avete tolto tanto che non ci è rimasta manco la paura”.

Forse invece ha ragione Anna e la paura e il coraggio si costruiscono e si disfano attraverso le generazioni, non in poche settimane. A inizio marzo, una ragazza del Rosal Organisado diceva: «Credo che una cosa non cambierà, ed è che ci siamo rese conto che possiamo cambiare l’agenda politica. Che sì, ne siamo capaci. Non so se io sarò viva quando avverranno i cambiamenti strutturali che richiediamo. Però ormai abbiamo iniziato».