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Che cosa resta di un femminicidio? Il libro sulla storia di Stefania Noce

È uscita la seconda edizione di “Quello che resta” di Serena Maiorana, Villaggio Maori Edizioni. Un libro prezioso, che partendo dalla storia di Stefania Noce – 24enne uccisa dall’ex fidanzato nel 2011 – riflette sul fenomeno dei femminicidi e sulla cultura della violenza nell’Italia di oggi. Pubblichiamo per voi la prefazione integrale a questa nuova edizione, scritta dalla fondatrice di Pasionaria, Benedetta Pintus

Stefania Noce
La copertina di Quello che resta, il libro di Serena Maiorana sul femminicidio di Stefania Noce

Dieci minuti.

Sono bastati dieci minuti per spezzare i sogni di una 24enne e lasciare una ferita aperta nella piccola comunità di Licodia Eubea, arroccata sulle colline alle porte di Catania. Appena dieci minuti di lucida determinazione omicida, in cui Loris Gagliano, una piovosa mattina di dicembre del 2011, ha strappato via la vita all’ex fidanzata Stefania Erminia Noce.

Che cosa resta di quei dieci minuti?

E’ questa la domanda che Serena Maiorana si chiede lungo tutto il suo viaggio intorno alla violenza di genere, che inizia in un paesino dell’entroterra siciliano e arriva fin dentro le nostre case, le nostre vite.

Vite normali, come quella di Stefania, che scopriamo attraverso gli occhi lucidi di sua madre, suo padre, le amiche e gli amici: gli studi a Catania, l’amore per Janis Joplin e l’arredamento etnico, l’impegno politico. Stefania che collaborava col giornale locale, Stefania che manifestava con la kefiah al collo, che organizzava una raccolta fondi per i terremotati dell’Aquila. Stefania che si dichiarava femminista e scriveva, con una consapevolezza rara per una ragazza poco più che adolescente, che “nessuna donna può essere proprietà oppure ostaggio di un uomo”. Eppure proprio un uomo, un uomo che voleva possederla a tutti i costi, ha messo fine alle battaglie di questa giovane sorridente e combattiva.

Non deve stupire: non si è mai preparate alla violenza. Soprattutto quando si è intrappolate nella spirale distruttiva delle relazioni tossiche. Gabbie a lungo invisibili, finché non si matura la lucidità necessaria per riconoscere tutti i piccoli grandi abusi di cui si nutrono. Li chiamano “micromachismi”: futili scenate di gelosia, minacce velate da battute, bugie apparentemente insignificanti. È con questi gesti banali, troppo spesso sottovalutati, che si apre ogni baratro di quotidiana violenza di genere. Un fenomeno trasversale, che colpisce donne di ogni età, origine, ceto sociale e grado d’istruzione.

Le loro storie, così simili da confondersi, si susseguono ogni mese, ogni settimana, sommandosi alla lugubre conta dei femminicidi. È quando i loro volti iniziano a perdere i contorni e a sovrapporsi uno con l’altro – diventando numeri, statistiche e strumentalizzazioni politiche – che dobbiamo chiederci che cosa resta di queste donne, oltre a qualche morboso titolo di giornale e un selfie su Facebook accanto al loro carnefice.

Per comprenderlo, l’autrice ci invita ad avere il coraggio di andare oltre il sangue versato, le famiglie lacerate dai sensi di colpa, le scarpe rosse disseminate nelle piazze come lapidi.

Ci invita a riflettere su cosa unisce l’abisso di Loris e Stefania, a quello di Maria, uccisa da Antonio con un tubo di ferro. Di Luisa, fucilata dal marito, o di Sara, strangolata e bruciata viva da Vincenzo. Cambiano i nomi, le dinamiche degli omicidi, ma non le logiche di dominio e possesso che muovono questi assassini.

Né le parole usate per raccontarle: raptus, onore, tradimento, passione. Nelle narrazioni dei femminicidi “finisce per chiamarsi amore persino la morte”, osserva Serena Maiorana, reclamando di nominare queste uccisioni per quello che sono: “un’ecatombe, una guerra, una strage”. Senza sminuire la cronaca più nera in un tragico romanzo d’appendice, per tentare di rendere più accettabile una prassi criminale che non può essere più confusa con la fatalità.

Non in una cultura in cui le donne sono dee da venerare solo fin quando rispettano gli stereotipi precostituiti di fidanzata, moglie, madre, figlia modello, accettando di farsi carico del lavoro di cura in famiglia e nelle relazioni. Ma diventano ben presto puttane da punire se decidono, proprio come aveva fatto Stefania, di cercare una via d’uscita camminando sulle proprie gambe. Di definirsi anche senza mettersi in relazione a un uomo, specialmente a quel tipo di uomo che la vorrebbe sempre in casa ad aspettarlo, una bambola di sua proprietà.

E’ troppo facile chiamarli “mostri” per zittire la nostra coscienza, abbassare il volume della domanda più assordante: “Siete davvero certi che le nostre storie non vi riguardino?”, si chiede e ci chiede l’autrice dando voce a Stefania, Maria, Luisa, Sara e tutte le altre.

Stefania Noce
Stefania Noce

Che cosa resta di questo dolore?

La necessità di smettere di stare a guardare, accontentandoci della retorica fine a se stessa che fin troppo spesso – sui giornali, in tv, nelle pubblicità ma anche nelle iniziative istituzionali – accompagna la narrazione della violenza contro le donne, descritte sempre come vittime dagli occhi pesti, inermi e da proteggere. Come se la violenza fosse un destino e non qualcosa contro cui si può e si deve reagire.

Resta l’urgenza di prendere l’iniziativa, come ha fatto chi a Licodia Eubea ha fondato l’associazione SEN (Stefania Erminia Noce), che da anni promuove iniziative ed eventi di sensibilizzazione contro la violenza di genere, perché quella morte, così devastante per quella piccola comunità, rappresenti un punto di partenza e non di arrivo. Lo spunto di un percorso di consapevolezza collettivo, che ci porti a riflettere su come nasce e si alimenta questa violenza, su come fare la differenza in una società in cui ancora non viene accettato il concetto di “femminicidio”, l’idea che una donna possa morire “in quanto donna”, intrappolata nel ruolo di genere imposto da una cultura patriarcale che la vorrebbe sempre “al suo posto”, cioè inevitabilmente all’ombra di un uomo.

Con il progetto femminista Pasionaria.it, in occasione di un 25 novembre, la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, abbiamo lanciato la campagna “Anche questa è violenza”, invitando le nostre lettrici a guardare cosa si nasconde sotto il tappeto dei femminicidi e raccontarci quali fossero i piccoli grandi abusi nella loro quotidianità. Ci sono arrivate testimonianze di ogni tipo: dalla paura di tornare a casa da sole la sera alle telefonate inopportune degli ex, dalla pressione all’essere belle per forza alle battutine sessiste sul lavoro, dall’essere sottovalutate perché donne ai palpeggiamenti sui mezzi pubblici. Tutto questo, e molto altro ancora, è la radice da estirpare perché non ci sia più “ni una menos”, come ci hanno insegnato a dire le attiviste sudamericane: “non una di meno”, lo slogan con cui più di duecentomila persone – donne, uomini, bambini e bambine – sono scese in piazza a Roma per dire basta a ogni genere di violenza maschile contro le donne.

Per contrastare la cultura sessista che la alimenta bisogna coltivarne una nuova, ripartire dalle basi investendo su educazione e sensibilizzazione. Bisogna iniziare a parlare apertamente di affettività, rispetto, sessualità, consenso, non solo tra addetti e addette ai lavori ma in tutti i luoghi di aggregazione: nelle scuole, nelle associazioni, all’università e nei posti di lavoro. Non bisogna avere paura di discuterne con un linguaggio chiaro, diretto, accessibile anche ai più giovani, come quello di Serena Maiorana, che, partendo dalla storia di Stefania, senza indugiare in luoghi comuni, arriva dritta al cuore del problema e affronta a viso aperto cosa si nasconde tra le pieghe della violenza contro le donne, al di là del mero fatto di sangue.

Ci sprona a interrogarci, a comprendere che se vogliamo cambiare la situazione e fermare i femminicidi, non possiamo più aspettare: perché tutto quello che ci resta “è la nostra capacità di scegliere”.

Benedetta Pintus
Giornalista e attivista, fondatrice di Pasionaria.it

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