«Non esistono le madri buone, fióla! E non esistono le madri cattive. Esistono solo le madri. E le madri fanno con quello che hanno». Così, mentre impasta sul tavolo di cucina, una nonna confida alla giovane nipote di aver abortito, più volte, grazie a una mammana e ai suoi ferri da calza.
È uno dei ritratti che ci regala la raccolta di racconti Cattiva Madre (Giraldi Editore), in cui Serena Ballista – formatrice esperta in studi di genere, nonché presidente dell’Udi di Modena – affronta, con delicatezza ma molta onestà, le maternità considerate “difettose”, perché lontane da quella idealizzazione della figura materna che condanna molte donne a sensi di colpa e inadeguatezza.
Donne che hanno abbandonato i figli, che figli non ne hanno voluti, che li hanno picchiati o dimenticati da qualche parte. Donne che si sono sentite perse, sole, incomprese ma anche molto consapevoli di se stesse, delle proprie forze quanto delle proprie vulnerabilità.
Le nove storie di Cattiva Madre indagano la maternità lontano dal luogo comune del presunto “istinto materno”, restituendone tutta la complessità «fuori dai canoni nei quali, invece, continua a voler essere imbrigliato», commenta Stefania Prandi nella sua prefazione.
In questi anni tante donne ci hanno scritto per raccontarci della loro difficoltà a sentirsi “buone madri”: c’è chi ci ha confessato di aver rinunciato a se stessa per i figli, chi si è definita una “madre di merda”, chi ha condiviso con noi lo stress della maternità. Avendo letto tante testimonianze simili, il libro di Serena mi ha colpito per la sua franchezza e la voglia di voler restituire le madri alla loro umanità. Per questo ho voluto chiederle di più.
Serena, da dove è nata l’esigenza di parlare di madri diverse dall’immaginario tradizionale che le descrive come esseri più mitologici che umani?
«Nasce dal “partire da sé”, la pratica femminista che ho deciso di fare mia. Cattiva madre nasce da solo, non è stata una decisione razionale. Un anno dopo la nascita della mia prima figlia, ho partecipato a un corso di scrittura creativa. Ricordo perfettamente che andarci rappresentava per me una vera evasione. Me ne andavo di casa alla chetichella per godermi un momento tutto per me. Il corso prevedeva la realizzazione di un racconto breve ed è stato così che mi sono ritrovata tra le mani il primo racconto di Cattiva madre, “A mani calde”. Parla di una giovane donna che decide di sopravvivere alla perdita di sua figlia appena nata: rappresentava, da un lato, la mia più grande paura e, allo stesso tempo, un desiderio inconfessabile, quello di tornare a essere una e indivisibile, liberata da un rapporto simbiotico che avevo sentito a tratti soffocante durante tutto il primo e stupefacente anno di vita della mia bambina.
Scrivere per me è stato terapeutico, un’azione di denuncia dell’ideale materno e dei canoni irraggiungibili ai quali questo ideale richiede di conformarsi. Ho sublimato l’abnegazione della maternità e la sofferenza che la resistenza all’abnegazione, comportava. Ho riguadagnato me stessa, ho esercitato una presa sulla maternità, sentivo di poterla controllare anziché farmi controllare. Farlo è stato doloroso, ma necessario».
Quali sono secondo te i peggiori e dannosi stereotipi sulla maternità e come ci si può ribellare?
«Il peggiore di tutti è quello della madre che si deve compiacere del suo annullamento nella esperienza di maternità. E’ disumano. Questo libro è stato scritto per rompere un tabù e far sentire le donne meno sole davanti a loro stesse. Mi sono concessa il tempo di scavare a fondo dentro di me e quello che è emerso è che io ho il diritto di restare un essere umano con, certamente, i suoi punti di forza, ma anche con le sue debolezze e, perché no, anche le sue miserie. Con questo libro, ho voluto – nel mio piccolo – mandare in frantumi la mistica della maternità, il “mito della madre” che, proprio perché mitizzata, è irraggiungibile, inimitabile, ineguagliabile. Non scende a patti con la realtà, con l’esperienza umana, anzi la trasfigura e così facendo ingabbia le donne nelle loro stesse aspettative sulla maternità, creando dolore, frustrazione, sensi di colpa a non finire.
In tutti i miei racconti è l’ambivalenza del sentimento materno a prendersi la scena e, per dirla con Orna Donath [autrice del libro “Pentirsi di essere madri”, ndr], molte zone d’ombra che le mie madri provano verso la maternità non sono altro che strumenti di resistenza a un sistema oppressivo di stampo patriarcale. Le mie madri non è che non sono capaci di tendere al “mito materno”, non vogliono. Sono donne vive, che reagiscono negativamente ad aspettative sovrumane, e che, in questo senso, diventano le cartine di tornasole di una verità che Simone de Beauvoir ci lascia e cioè che la maternità è un campo di battaglia sul quale è stato eretto l’edificio del patriarcato.
Le mie “cattive” madri sono, in realtà, donne più o meno consapevolmente r-esistenti che provano sulla pelle quella che Elisabeth Badinter [autrice di “Mamme cattivissime?”, ndr] definisce come la “contraddizione più dolorosa”, quella cioè che risiede in seno a ogni donna che non confonda se stessa con la madre. Siamo donne prima che madri. E siamo esseri umani prima che donne. Ricordiamocelo».
Nel tuo libro parli anche di “madri putative” (come Virginia Woolf, Jane Austen, Elsa Morante, Adrienne Rich), donne in cui il “potere generativo femminile si manifestava in un parto intellettuale”. Mi è sembrato quasi un modo di associare un qualche tipo di maternità anche alle donne che non hanno avuto figli.
«Nella mia raccolta c’è anche la storia di una donna che sceglie di non diventare madre, denunciando in qualche modo il fatto che la “scelta” si ponga sempre al negativo. Cioè, si dà per scontato che una donna faccia figli, se non li fa è perché ha “scelto” di non farli. Questo è il segno di quale aspettativa incombe sulle donne.
Detto questo, quando parlo di “potere generativo femminile” o di “parto intellettuale” rispetto alle madri putative che di figlie o figli biologici non ne hanno mai avuti, non intendo assolutamente “riabilitarle”. Intendo mettere l’accento sul fatto che generare non è solo un fatto biologico, ma anche intellettuale ed è proprio di donne e di uomini, tanto è vero che parliamo, ad esempio, di madri e padri costituenti. Sono i lasciti intellettuali delle donne a interessarmi particolarmente per via dei fili rossi che posso agganciare alla mia condizione di donna, di cittadina».
Parliamo anche di padri: quali sono secondo te i privilegi e le difficoltà dei padri nella società di oggi e in che modo una paternità consapevole potrebbe aiutare ad abbattere il “mito materno”?
«I padri possono continuare a lavorare senza particolari impedimenti e quindi coltivare e custodire la loro autonomia economica, propedeutica e necessaria all’autodeterminazione personale. Naturalmente, si tratta di un privilegio che a ben guardare è solo apparente perché il tempo della vita è altrove. Il ruolo del breadwinner [cioè del padre che si accolla il carico del mantenimento familiare, ndr], in questo senso, è simbolo della disparità di potere a vantaggio degli uomini ma è anche una fregatura per gli uomini stessi che molto si perdono del “privato”. Noto sempre più da parte dei giovani padri un desiderio, più o meno inconfessato, di vivere di più il tempo di vita familiare e, allo stesso tempo, un pregiudizio di fondo verso un padre che chieda il part-time, che viene immaginato più come uno scansafatiche che un padre che voglia praticare la propria paternità nel quotidiano.
Credo che sarebbero rivoluzionari i congedi parentali (materni e paterni) previsti in simultanea per il primo anno di vita della bambina o del bambino, anziché a targhe alterne. La nascita è un evento bio-sociale e chiama in causa la relazione, tra genitori e figli ma anche di coppia. L’arrivo di un nuovo componente familiare è destabilizzante per la coppia, che ha bisogno di concedersi tempo da passare insieme per costruire nuovi equilibri. Io ricordo molto bene che, dopo un’intera giornata passata da sola con mia figlia neonata, quando sentivo arrivare la macchina del mio compagno tiravo un sospiro di sollievo. Tutto diventa più affrontabile se si ha la possibilità di essere in due e quel “due” deve essere la coppia di genitori che hanno deciso di diventare tali, insieme».
Da poco è stato pubblicato un tuo albo illustrato intitolato Una stanza tutta per me (edizioni Settenove): trovo straordinario che un libro per l’infanzia abbia un titolo che richiama in modo così forte il femminismo e una delle sue più note precorritrici (Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf). Ce lo racconti?
«È stato un grande onore per me che questo libro sia stato selezionato dalla Biblioteca internazionale di Monaco tra i 200 libri più importanti al mondo: si è aggiudicato il White Ravens 2017.
Il mio intento era quello di consentire a piccolissime lettrici e a piccolissimi lettori l’incontro con Virginia Woolf e con la sua idea di autodeterminazione personale che passa attraverso la possibilità di ricavarsi uno spazio tutto per sé, uno spazio di introspezione, di sperimentazione e ricomposizione costante di sé. Ecco quindi che “la stanza tutta per sé” non è solo ciò che serve a una scrittrice per diventare tale, come sappiamo dal pamphlet originale di Woolf datato 1929, ma è anche lo spazio che consente la “scrittura” della trama della propria esistenza, della propria vita. L’albo si propone a bambine e bambini dai tre anni in su, l’età in cui – non a caso -si comincia ad avere la propria cameretta, la propria stanza. Una stanza che, appunto, cresce insieme a loro arricchendosi di dettagli e significati.
E poi… un albo su Virginia Woolf edito da una casa editrice italiana non esisteva ancora, per cui l’ho scritto io. È in assoluto il primo».
Pensi che anche le bambine e i bambini debbano essere educati a una figura di madre diversa, più imperfetta e umana?
«Certo che sì. È educativo per loro, credo, sapere di avere di fronte non una super-eroina che tutto può, ma un essere umano. È educativo perché, a loro volta, sapranno di potersi sentire così, senza sensi di colpa, anzi andando fieri della loro umanità.
In “Apologia”, che è l’ultimo brano della raccolta Cattiva madre, la protagonista, che è una madre che scrive una lettera alla propria bambina, chiede alla figlia non di scusarla per aver assecondato la sua vocazione di essere umano, e quindi di essere stata “cattiva”, ma le chiede di capirla, di apprezzarla, di amarla per questo. Siccome, questa lettera io l’ho scritta per davvero a mia figlia che, oggi, è ancora piccola per capirla, ho avuto bisogno di trasmetterle questi concetti ora, senza aspettare che abbia l’età per leggere Cattiva madre e così è nato Una stanza tutta per me, un inno all’autodeterminazione personale reso intellegibile per bambine e bambini di pochi anni. Io l’ho fatto con la scrittura perché credo che a suon di libri e di buon esempi possiamo fare molto per una società più inclusiva, felice e a portata di essere umano».