
Dalla quarta ondata del femminismo al Black Lives Matter, negli ultimi anni la politica “dal basso”, fuori dagli ambiti rappresentativi e istituzionali – mai sopita ma a lungo sommersa e confinata negli spazi dell’attivismo e dell’antagonismo – ha ripreso ad affermarsi in un modo dirompente e impossibile da ignorare, anche da parte di chi ha sempre sminuito, delegittimato e allo stesso tempo soppresso le lotte per la giustizia sociale.
La pandemia di Covid-19 non ha fatto altro che mostrare in maniera ancora più evidente il collasso già in atto del sistema in cui viviamo. Per semplificare all’osso, il progressivo acuirsi delle disparità economiche e delle iniquità sociali, insieme all’immobilismo di fronte al disastro climatico, hanno causato una sfiducia nelle istituzioni sempre più diffusa, dando linfa soprattutto alle proteste delle soggettività da sempre oppresse e discriminate, che in situazioni di instabilità globali (come è accaduto con la quarantena di questa primavera), trovano nella lotta alla sopravvivenza la forza di reagire e farsi sentire come non accadeva da tempo.
«Finalmente», abbiamo pensato.
Finalmente le piazze di nuovo piene.
Finalmente le persone giovanissime che hanno di nuovo voglia di fare politica.
Finalmente qualcosa si sta muovendo.
Ma non bisogna dimenticarsi che quanto più si rafforzano le lotte sociali, tanto più si rafforzano le fila conservatrici, a cui spesso si uniscono anche personalità apparentemente insospettabili che consideravamo compagne o alleate, come sta avvenendo all’interno del femminismo.
Come strumentalizzare il dissenso
L’ultima crociata di chi ha paura di perdere posizioni di potere è la guerra alla cancel culture, la “cultura della cancellazione”, espressione diffusa negli Stati Uniti e usata dalle destre reazionarie per tacciare il dissenso online.
Il termine cancel culture, scrive il Post, «indica la tendenza – accentuatasi molto negli ultimi anni sui social network, soprattutto nelle persone di sinistra, nei giovani e tra gli attivisti anti-razzisti – ad attaccare collettivamente persone famose di cui emergono comportamenti, idee o dichiarazioni ritenute sbagliate e offensive, indipendentemente dall’entità e dal fatto che siano attuali o molto antiche, chiedendo punizioni immediate come il loro licenziamento o boicottaggio».
Episodi recenti che potrebbero essere definiti dai detrattori come cancel culture, sono ad esempio il caso Montanelli (noi ne abbiamo scritto qua) e il caso Rowling, l’autrice di Harry Potter attaccata per la sua ennesima presa di posizione discriminatoria nei confronti delle persone trans.

Non è un caso che proprio lei sia tra le principali promotrici di una recente lettera aperta contro la cancel culture, firmata da 150 personaggi del mondo intellettuale (tra cui la Margaret Atwood de Il racconto dell’ancella, la femminista storica Gloria Steinem e il filosofo da sempre vicino ai movimenti sociali e no global Noam Chomsky).
Questa lettera sta facendo molto discutere per tanti motivi e il complesso dibattito che ci sta girando intorno è stato già analizzato da diversi articoli, tra cui quello molto dettagliato di Matteo Pascoletti su Valigia Blu.
Io qui vorrei soffermarmi sul concetto di cancellazione nel contesto delle lotte politiche delle soggettività oppresse.
Chi cancella chi?
La prima cosa che mi colpisce della lettera è la facilità con cui fanno uso di termini come “censura” e “cancellazione” personaggi che hanno il privilegio di poter vedere pubblicate e diffuse le loro opinioni e le loro esperienze sulle testate più prestigiose e importanti di tutto il mondo.
Certo, questa possibilità se la sono guadagnata grazie al contributo che hanno dato al mondo della cultura, ma proprio per questo dovrebbero sapere meglio di chiunque che poter far sentire la propria voce con tale risonanza non è scontato, né accessibile.
Eppure il loro appello è volto a fermare le voci di dissenso di chi non ha questo tipo di privilegio e si affida a post, tweet, hashtag, campagne online e boicottaggi perché non ha altri mezzi per farsi sentire. Come, ad esempio, tutte le persone “comuni” vittime di sessismo, razzismo, omo-lesbo-bi-transfobia, abilismo, body shaming e ogni altro genere di discriminazione sistemica, che hanno sempre subito e continuano a subire cancellazione dalle narrazioni mainstream.
Vale a dire che la maggior parte delle soggettività oppresse o non vengono quasi mai neanche prese in considerazione dalle narrazioni dominanti (ad esempio persone trans, persone non binarie, persone disabili) oppure vengono costrette in narrazioni fortemente stereotipate, normative e discriminatorie (ad esempio donne, persone grasse, persone non bianche).
Negli ultimi anni le battaglie antidiscriminatorie sono riuscite a emergere e a iniziare a cambiare queste narrazioni grazie al web e i social, che – seppur con tutte le loro zone grigie e contraddizioni – hanno permesso di fare rete e portare avanti vere e proprie rivoluzioni, culturali e non solo (ricordate la “primavera araba”?).
Non si può negare che i social purtroppo siano anche veicolo di hate speech, discorsi d’odio che si configurano come violenza. Una violenza che ovviamente, può scatenarsi anche contro personaggi noti e non può essere in nessun caso tollerata e giustificata, ma che va combattuta con i giusti strumenti e non può diventare la scusa dietro cui trincerarsi per censurare le critiche “dal basso”, da parte del pubblico. Tra cui ci sono innumerevoli attivist* con più competenza dell’intellettuale di turno su alcuni temi specifici.
E questo all’intellettuale che ha firmato la lettera contro la cancel culture non piace.
Piace il privilegio di poter essere una voce autorevole, ma non il suo risvolto della medaglia ai tempi del web: quello per cui se sei persona nota e dici una fesseria o porti aventi un concetto discriminatorio il famigerato “popolo della rete” ti stanga e ti fa notare dove stai sbagliando e perché.
Sui social non c’è la mediazione o la connivenza dei giornalisti amici, non si impone solo la narrazione normativa e convenzionale, ma coesistono infiniti rivoli di narrazioni e di linguaggi, molti dei quali sconosciuti a chi fa parte dell’élite intellettuale.
Libertà d’espressione o discriminazione?
«Ma allora non si può più dire niente» è la classica contestazione di chi vuole continuare a discriminare indisturbato e si appella alla “libertà d’espressione” contro “la dittatura del politicamente corretto”. Un altro modo, meno colto e classista, di esprimere un concetto molto simile a quello degli intellettuali arroccati dietro i loro privilegi.

La libertà d’espressione non può essere tirata in ballo a piacimento: se si è liberi di esprimere un’opinione, anche chi la pensa diversamente da noi ha la libertà di controbattere. E sul web lo fa anche chi non fa parte del nostro stesso giro, chi può smascherare pubblicamente certe nostre lacune o imprecisioni.
Pensare che questa possibilità di critica debba essere fermata significa, paradossalmente, chiedere proprio che venga ostacolata la libera espressione.
Ovviamente questo non può significare fare impunemente violenza verbale, ma neanche, per lo stesso principio, far passare per “libertà d’espressione” pensieri violenti, come, ad esempio, affermazioni sessiste, razziste, omofobe, transfobiche, abiliste e grassofobiche.
Un conto è il dibattito, per quanto acceso, un altro conto la discriminazione, sia che essa avvenga sfacciatamente attraverso offese e insulti, sia che venga portata avanti con ragionamenti apparentemente civili ed educati.
Rispettare le diverse soggettività non è “politicamente corretto” è rispetto dei diritti umani, è lotta alla violenza normalizzata e sistemica che continua a creare iniquità e oppressioni.
La cancel culture come scusa
Purtroppo questa battaglia per difendere le proprie posizioni discriminatorie con la scusa della cancel culture, si sta insinuando anche in una certa area del femminismo.
In Italia l’espressione “cultura della cancellazione” non mi pare si fosse mai sentita, o perlomeno affermata, fino a qualche settimana fa. In questi giorni l’ho vista comparire del tutto fuori contesto nei messaggi di alcune femministe che attaccavano le rivendicazioni trans tese, secondo loro, a “cancellare” le soggettività di “donna” e “madre”.
In breve (ma nel video sotto lo spiego meglio) si strumentalizza – esattamente come ha fatto J.K. Rowling – la richiesta da parte di soggettività trans di tener conto che esistono persone la cui identità di genere non è quella assegnata alla nascita in base al sesso – uomini con corpo biologicamente femminile, donne con corpo biologicamente maschile e persone non binarie – per affermare, erroneamente, che si vorrebbero “far sparire” le donne, il sesso femminile e le madri.
Inutile dire che questa amareggiante presa di posizione si configura come una lotta di potere sulla pelle di una comunità tra le più marginalizzate al mondo, quella trans.
Comprendo alcuni timori e perplessità in buona fede (di cui ha parlato in questo articolo l’attivista lesbica Beatrice da Vela) da parte di alcune attiviste.
Non comprendo e non accetto il trincerarsi dietro il timore di essere “cancellate” per salvaguardare gli spazi e le posizioni di influenza e di potere ottenute negli anni, cercando di imporre la propria narrazione come l’unica valida.
Non è sopprimendo e delegittimando le istanze di altre soggettività oppresse grazie ai propri privilegi, come ha sempre fatto il patriarcato, che si può difendere la lotta contro le ingiustizie che affliggono la propria.
Non è cercando di erodere la risicata visibilità raggiunta solo negli ultimi tempi da identità da sempre invisibilizzate, che si possono pretendere rispetto e ascolto.
Non è costruendo recinti che si può portare avanti la lotta femminista.