Quando sono stata abbastanza grande mia madre mi ha raccontato la storia del mio parto. All’epoca non era permesso all’eventuale padre di essere presente al momento della nascita, mio padre venne semplicemente allontanato da un’infermiera con la motivazione che si trattava di “roba da donne“.
Io sono nata di domenica, il ginecologo è arrivato soltanto a parto ultimato, mentre un’ostetrica ha accompagnato mia mamma durante il momento delle contrazioni. L’ostetrica, mentre mia mamma si contorceva dal dolore, lavorava con i ferri e la incoraggiava a “non lamentarsi troppo” perché sapeva di dover partorire e “il dolore era assolutamente necessario”.
No, credo non ci furono molte parole di conforto quella sera, ancora meno quando io nel venire al mondo la lacerai completamente e mia madre venne ricucita a freddo senza né anestesia né un minimo di empatia. Io chiaramente venni portata immediatamente via e fatta avvicinare a mia madre soltanto dopo qualche ora.
Questa è una semplice storia ma quante storie simili ho e abbiamo sentito?
Il progresso medico scientifico non sempre ha aiutato le donne a vivere con pienezza e consapevolezza il momento del parto. Nonostante la profonda medicalizzazione, non si può trascurare che il momento del parto rivela tutt’oggi una varietà infinita di significati, alcuni assolutamente ancestrali.
Per ogni donna è un momento con una fortissima connotazione, un evento di crescita e di espansione dell’esperienza personale con una componente ansiosa molto forte, proprio per quanto riguarda la propria capacità di affrontarlo e di gestirlo “bene”.
Non possiamo trascurare il fatto che possano esserci addirittura dei vissuti completamente negativi, con una notevole difficoltà a recuperare l’integrità fisica, fino ad arrivare, in certi casi, a vivere negativamente il vuoto nel proprio ventre, con una grossa difficoltà a riconoscere la separazione dal proprio bambino.
E come non considerare l’aspetto culturale che assume una rilevanza decisiva nelle valutazioni su di sé e sull’idea del parto, che condizionano durante la gravidanza e nel corso del parto stesso?
Dobbiamo fare bene, dobbiamo dare il massimo.
Non bisogna fallire.
In fondo siamo donne siamo nate per questo.
Oppure no?
Mi capita di lavorare con le mamme e a volte il momento del parto è stato vissuto con profonda paura, spesso come un vero e proprio trauma.
È giusto usare questa parola in questo contesto? Assolutamente sì, ecco perché lo spiraglio aperto dalla campagna #bastatacere è di vitale importanza: in pochi mesi la pagina Facebook ha raggiunto quasi i 20mila iscritti e decine e decine di madri hanno partecipato raccontando i loro eventi traumatici in sala parto, molti dei quali si possono configurare come veri e propri abusi.
Troppo spesso riteniamo accettabili o naturali certi atteggiamenti e comportamenti quando non lo sono affatto. Non sto parlando di tecniche mediche, perché non ho nessuna competenza per farlo, ma mi riferisco a una spesso inesistente sensibilità nella comunicazione quando si parla e si tratta con una donna in procinto di partorire.
In quel contesto ci si rivolge a esseri umani, in un momento delicatissimo. Perché dimenticarlo?
Sono davvero soddisfatta quindi che i riflettori si accendano su quello che succede in un momento in cui il benessere della madre e della sua creatura dovrebbero essere messi al primo posto senza nessun se e nessun ma.