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Atena, la dea guerriera, e la sua compagna Pallade

Torna la nostra rubrica, illustrata da Storm Neverland, su dee e divinità femminili tratte da varie mitologie. ll mese scorso abbiamo parlato di Tanit, questa volta ci dedichiamo, invece, ad Atena, una delle divinità più famose del pantheon classico. Dea della strategia militare, della saggezza e delle arti, abbiamo scelto di raccontarla attraverso la versione moderna di uno dei miti che la vede protagonista

Atena vista da Storm Neverland

Sono nata con la lancia in mano. Non ricordo il primo momento in cui l’ho impugnata e mi sono messa a colpire, per noia, i pensieri bislacchi che trovavo nel covo di parole, emozioni, argomenti. Ho scoperto solo dopo che la capacità di tenere a mente qualsiasi cosa sfiori il mio intelletto è un dono di mia madre, Mnemosyne, dea della memoria.

Zeus, forse un padre, forse un assassino, decise un giorno di liberarmi perché le emicranie che gli procuravo volteggiando la lancia o appoggiandomi con l’elmo alle pareti della mia casa – la sua testa – erano divenuti insopportabili. Così entrai nel mondo degli dei e degli uomini.

Mio padre mi chiamava Atena, ma gli altri dei presto mi chiamarono Glaucopide, per i miei occhi lucenti e inquietanti, come quelli di un rapace. Qualcuno ha sparso in giro la favola che siano gialli, ma in realtà sono grigi come le ali della mosca in cui fu tramutata mia madre.

Mi dicevano che ero strana, col mio chitone troppo lungo e le mie armi non adatte a una donna. Dicevano che ero goffa quando, deposto l’elmo accanto ai piedi, mi rilassavo creando storie al telaio.

“Come fanno quelle mani callose e guerriere a creare opere così delicate?”, si meravigliava qualcuno.

Sopprattutto gli altri dei non mi perdonavano la mia intelligenza, la mia conoscenza delle cose, la capacità di anticipare le loro frasi e anche i loro pensieri. Ares continuava a dire che la guerra non è cosa da donne, ma poi riuscivo sempre a sconvolgere, con la mia strategia, i suoi eserciti.

Mi stancai presto del chiacchiericcio degli altri abitanti del cielo, dei e dee troppo simili a uomini e donne, ma senza possederne l’imperfezione. Neanche tra i mortali trovai pace, non capivo cosa fosse che li rendeva ubriachi di sorrisi, contenti di stare insieme.

Allora imparai a scappare da sola per i pendii di roccia, a trovare migliori consigli tra le foglie di ulivo che stormiscono quando Zefiro le accarezza.

La terra, le radici, le ninfe degli alberi e dell’acqua, gli animali della selva mi insegnarono il mondo che non avevo conosciuto nella testa del Cronide. Si impara da tutto e da tutti e nel silenzio della mia testa fiorivano idee. Ogni tanto, come si fa coi fiori, ne fornivo qualcuna al viandante, alla ragazza venuta a prendere l’acqua alla fonte, alla vecchia che si annoiava badando le galline.

Una notte, mentre vagavo senza riuscire a prendere sonno, stavo pensando a come rendere le olive utili agli uomini, sentii un grido acuto dietro le spalle. Mi sfiorò un battito d’ali, una civetta si posò su un ramo di fronte a me. Conversammo tutta la notte finché non mi addormentai.

La civetta continuò a visitarmi per molte notti, tenendomi compagnia. Alla luce di un plenilunio estivo, mentre io e la civetta conversavamo, cercando un po’ di refrigerio dalla calura, si parò di fronte a me una figura dai lunghi capelli.

Un raggio di Selene ne fece scintillare la lancia. La civetta le volò sulla spalla.

“Sei mortale o dea?” le chiesi.

“Mortale. Mi chiamo Pallade, mia signora. È tanto che volevo conoscerti, dea.”

Non ho più visto nel mio tempo eterno umana più bella, con le braccia bianchissime e le mani guerriere. Era la compagna, l’amica che una dea possa desiderare.

Era il mio specchio, un’altra donna guerriera.

Trascorremmo insieme giornate stupende, visitando i villaggi degli uomini e le selve boscose. Quando eravamo stanche dal tanto imparare ci fermavamo a giostrare con le lance, inventando strategie e trucchi, simulando battaglie.

“Sbaglia chi dice che a un guerriero sia necessaria la bruta forza, ci vuole strategia” diceva.

“Ci vuole comprensione, intelligenza, pazienza” rispondevo.

“Ci vuola Atena, la Dea”.

Le mie invenzioni e il mio talento guerriero mi resero famosa tra i mortali, ma c’era qualcosa che continuavo a non capire. E questo qualcosa mi portava sempre alla mia Pallade, magari di notte, fra gli ulivi. Spesso ci addormentavamo abbracciate, mentre la civetta ci narrava storie incredibili.

“Incrociamo di nuovo le lance” mi chiese una notte di luna nuova. “È tanto che non giochi con me, ti sei forse dimenticata della tua Pallade?”. Come potevo dirle di no, quando quel qualcosa che non sapevo spiegare sussurrava sempre il nome di lei?

Simulammo un combattimento, nell’oscurità della notte. Fu la civetta ad avvertimi, con la voce trasformata in un pianto stridulo, che Pallade non si fingeva caduta, ma che la mia lancia l’aveva trafitta sul cuore. Mi chinai su di lei mentre Atropo recideva il suo filo. E se c’è una cosa che ho sempre saputo è che anche gli dei non possono opporsi alle Moire e al Destino.

Chi cade nell’Ade non può far ritorno.

Raccolsi io stessa le ossa di Pallade dalla pira funebre, sporcandomi di cenere, mentre la civetta emetteva i suoi lamenti. Andai a lavarmi a una fonte sul Citerone, là dove mi vide Tiresia, né uomo né donna, e guardando il mio riflesso rividi il volto di Pallade.

Era amore ciò che non riuscivo a capire.

Per questo decisi che Pallade sarebbe stata sempre prima del mio nome e che così i mortali mi dovessero sempre chiamare, per ricordare che al mondo c’è qualcosa che sfugge a ogni ragione.