La questione migratoria occupa da tempo in Italia le pagine dei giornali in maniera discontinua e superficiale. Se ne parla ancora come una questione emergenziale con immagini di matrice colonialista che spettacolarizzano la sofferenza, nonostante sia evidente da decenni che si tratta di un fenomeno strutturale della nostra società.
Le battaglie antirazziste, soprattutto sull’onda dell’omicidio di George Floyd e delle battaglie di Black Lives Matter negli Stati Uniti, hanno subito la stessa sorte: nei media ci si indigna per il caso eclatante di violenza fisica o verbale razzista, si nomina la manifestazione ma ci si dimentica delle discriminazioni quotidiane e istituzionalizzate che continuano a colpire le persone razzializzate in Italia.
LEGGI ANCHE Quando il razzismo è di Stato
Anche l’agenda femminista italiana cade spesso in questa trappola.
La lotta antirazzista è, spesso, relegata a una voce della lista da nominare e la razza continua a non esser vista come una delle forme di oppressione centrali per analizzare il presente e la società.
La lotta antirazzista invece non può essere una delle lotte del movimento femminista ma deve essere centrale: una lotta di liberazione che riguarda tutt*.
Ne abbiamo parlato con C., attivista – che preferisce rimanere anonima – dell’Assemblea Donne del Coordinamento Migranti di Bologna.
L’Assemblea Donne nasce dal Coordinamento Migranti, un collettivo di persone migranti, attivo da una ventina di anni a Bologna, che si batte contro la cosiddetta legge Bossi-Fini e per la fine del razzismo istituzionalizzato. L’Assemblea, in particolare, vuole affrontare temi più specifici legati alla condizione delle donne migranti, come la loro massiccia presenza nel settore dei lavori di cura e il ricatto del permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare.
Le attiviste pongono l’accento sull’intersezionalità tra il sistema patriarcale, il razzismo e lo sfruttamento capitalista.
LEGGI ANCHE Violenze sulle braccianti: il sessismo e il razzismo che non vogliamo vedere
Il razzismo sistemico delle politiche migratorie
«Le politiche migratorie in Italia – ci racconta C. – sono assolutamente insufficienti. Si vedono i migranti solo come forza lavoro: la sanatoria così come il Nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo regolano il lavoro migrante solo per sfruttarlo ancora di più». Si «decide quanti migranti sono necessari a uno stato per supplire alla mancanza di manodopera in determinati ambiti mentre tutte le altre persone sono assolutamente sacrificabili».
La legge Bossi-Fini del 2002, di cui chiedono la cancellazione, ha introdotto il permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato. Un permesso della durata di un anno ottenibile presentando un contratto di lavoro effettivo. Di fatto, «legando permesso di soggiorno e contratto di lavoro si dà il via libera allo sfruttamento» con «turni assurdi, salari diminuiti, contratti sempre più flessibili» possibili perché perdere il lavoro significa perdere l’unico titolo che permette di rimanere in Italia, spiega C.
Anche il permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare è problematico. «La donna che raggiunge il compagno in Italia – continua l’attivista – si trova ad avere un permesso legato al coniuge, così come quello di eventuali figli e ciò rende estremamente difficile denunciare e uscire dalle dinamiche della violenza domestica».
La situazione quest’anno è stata ulteriormente aggravata dall’isolamento dovuto alla pandemia. Le chiamate al numero 1522, il numero antiviolenza, da parte di donne straniere sono aumentate del 40% rispetto al 2019 mentre gli accessi ai Centri Antiviolenza sono diminuiti soprattutto nei primi mesi di marzo in cui le donne migranti sono state le prime a scomparire in una invisibilità totale.
Per questo l’Assemblea Donne del Coordinamento Migranti chiede un «permesso di soggiorno europeo incondizionato slegato da contratto di lavoro e ricongiungimento familiare che permetta alle persone migranti la libertà di movimento senza essere incastrate in dinamiche violente o in lavori sfruttati», afferma C.
LEGGI ANCHE Decreto immigrazione: la lotta è anche femminista
Intersezionalità delle lotte: reti e rivendicazioni
«La lotta delle donne migranti è essenziale per tutte le lotte: quella femminista, quella antirazzista e quella anticapitalista. La doppia oppressione di genere e di razza che ci colpisce in quanto donne e in quanto migranti, ci mostra come si intersecano le oppressioni patriarcali e razziste. Da questo posizionamento interagiamo negli spazi che frequentiamo», ci racconta ancora l’attivista.
L’Assemblea Donne del Coordinamento Migranti crede nella «lotta transnazionale perché i piani di regolazione delle migrazioni non riguardano solo l’Italia, ma anche l’Europa e ormai tutto il mondo». Partecipa al Coordinamento Transnazionale delle e dei Migranti, a E.A.S.T. (Essential Autonomous Struggles Transnational) e al percorso femminista internazionale della rete Non Una Di Meno.
Nel manifesto verso l’8 marzo le attiviste migranti scrivono:
“Noi, donne e persone LGBTQIA* migranti rifiutiamo che la nostra autonomia, la nostra mobilità e le nostre vite siano subordinate alle esigenze economiche europee e governate dal razzismo istituzionale. Finché la libertà dei migranti non sarà assunta da tutte e tutti come una battaglia generale, potremmo essere insieme nelle piazze, ma rimarremo divise e frammentate nelle case, nelle città e nei posti di lavoro”.
«La lotta antirazzista – ci ricorda C. – non può essere una delle lotte del movimento femminista ma deve essere centrale, una lotta di liberazione che riguarda tutte». In Italia però, anche all’interno del movimento femminista, «è ancora difficile mostrare questa centralità».
Il tema delle migrazioni e del razzismo cominciano ad essere affrontati, «ma è ancora difficile rendere centrali le lotte delle persone migranti principalmente per due motivi. Primo, la nostra difficoltà a fare politica per il carico di lavoro che abbiamo che rende difficile trovare momenti liberi per riunirci e partecipare alle assemblee. Il secondo problema è che ancora, anche negli ambienti femministi, dobbiamo lottare per prenderci quello spazio e quella visibilità che invece ci prendiamo quotidianamente nelle lotte anche sui luoghi di lavoro. Partecipando in maniera attiva alle riunioni e ai momenti di piazza cerchiamo di riprenderci lo spazio che ci è dovuto e di sottolineare che la nostra lotta deve essere al centro».
Il rapporto con i sindacati non è semplice: «Lavoriamo con chi è disposto ad appoggiare le nostre lotte, perché spesso, soprattutto i sindacati confederali (CGIL, CISL e UIL), fanno di tutto per ostacolarci». Eclatante il caso, denunciato da Eliana Como, della sindacalista della CGIL trasferita a pochi mesi dalla pensione per aver solidarizzato con la lotta delle lavoratrici di Yoox.
Pandemia, lavori essenziali e ricostruzione
Il mercato del lavoro in Italia “appare – si legge nel Dossier Statistico Immigrazione 2020 – ancora rigidamente scisso su base ‘etnica’, con le occupazioni più rischiose, di fatica, di bassa manovalanza, precarie e sottopagate massicciamente riservate agli stranieri, che vi restano inchiodati anche dopo anni di servizio e di permanenza nel paese”.
Al contempo il lavoro femminile è sempre più sinonimo di precarietà, aumentano ogni anno le lavoratrici con contratti part-time e a tempo determinato, il lavoro produttivo e riproduttivo è ancora quasi totalmente in mano alle donne e la famiglia è ancora centrale nel garantire quei servizi carenti a causa delle pessime politiche di welfare.
LEGGI ANCHE Lavoro riproduttivo: il sistema capitalista sulle spalle delle donne
In Italia nel 2020 il 68,8% delle persone che svolgevano lavori domestici e di cura erano straniere, per la maggior parte donne. Durante la pandemia di Covid-19, spiega C., «chi di noi faceva lavori di cura come la badante o la baby sitter si è trovata improvvisamente licenziata e a volte anche senza una casa». Di frequente, infatti, gli accordi di lavoro per le badanti prevedono anche vitto e alloggio oltre allo stipendio.
Per chi invece svolgeva lavori essenziali le pratiche di sfruttamento si sono intensificate. Con il Coordinamento Transnazionale delle e dei Migranti scrivono:
“Siamo le donne e le persone LGBTQIA* migranti, rifugiate, senza documenti e richiedenti asilo che lavoravano prima e hanno continuato a lavorare dall’inizio della pandemia affinché i bisogni essenziali venissero soddisfatti. Siamo state e siamo in prima linea negli ospedali, nei magazzini, nei servizi di sanificazione, nell’assistenza ad anziani e bambini, nella vendita e nella distribuzione dei beni di consumo primari, eppure, le nostre vite non contano. Sappiamo però che se ci fermiamo noi, si ferma il mondo. La nostra lotta è essenziale e il nostro sciopero è essenziale”.
Neanche con la fase di «ricostruzione post pandemia” sembra andare meglio: «il Recovery Plan non affronta le dinamiche di oppressione delle e dei migranti e il Family Act è razzista. Prevede infatti un assegno per i figli che va alla famiglia e non alla donna, nonostante siamo noi che ci occupiamo quasi sempre della prole. Inoltre viene dato a chi ha un contratto di lavoro continuativo da almeno due anni e in questo modo ci esclude. Ci ritroviamo quindi a fare doppi lavori, tra cui la baby sitter a donne bianche che magari, invece, possono ricevere l’assegno».
Le lavoratrici di Yoox e la pratica dello sciopero
Durante la seconda fase della pandemia le lavoratrici di Yoox, azienda che si occupa di vendite online di beni di moda, lusso e design, si son trovate imposto, pena il licenziamento, «un cambio di turni con orari impossibili da conciliare con le loro necessità di madri che, essendo le scuole chiuse, devono gestire i/le figli*».
“Intanto – scriveva il sindacato SiCobas – il lavoro aumenta, l’e–commerce in questo tempo viaggia veloce, i profitti raddoppiano, ma il colosso del fashion on line Yoox Net–a–porter, nei suoi appalti massimizza l’efficienza produttiva, riducendo le pause durante l’attività lavorativa”.
È chiaro, aggiunge C., che il cambio di turno «non è dovuto al Covid, ma è un tentativo di farle licenziare, poiché hanno contratti a tempo indeterminato, per assumere altre persone con contratti più precari e flessibili».
La lotta delle lavoratrici Yoox viene da lontano: è iniziata nel 2014 a causa di ripetuti episodi di mobbing a una lavoratrice e nonostante «gli insulti razzisti e sessisti subiti dalle lavoratrici che scioperavano» e le denunce non mollano.
«I padroni ci tolgono ogni diritto sapendo che il permesso di soggiorno è legato al contratto di lavoro. E, soprattutto per chi ha contratti a tempo determinato, è proprio di perdere il posto di lavoro che si ha paura. Poi ci sono le punizioni: come successo in Yoox, tolgono i buoni pasto, accorciano le pause, mettono le lavoratrici che non scioperano contro quelle che scioperano dicendo che ‘scioperando si rallenta il lavoro di tutte».
«Noi stiamo attente alle singole situazioni e necessità e cerchiamo di capire quando i ricatti dei padroni sono reali e quando invece sono solo fatti per disincentivare le adesioni. Noi cerchiamo di trasformare la paura in rabbia e ribellione. Scioperare e alzare la testa è un nostro diritto e funziona. Ci ha portate a credere di nuovo che è possibile. Ci sta dando speranza perché altre donne in altri magazzini si stanno unendo stufe di sottostare ai ricatti».
#Lottomarzo e lo sciopero globale transfemminista!
«Lo sciopero, per l’Assemblea Donne del Coordinamento Migranti, è un processo fondamentale per dimostrare e interrompere lo sfruttamento sistemico dovuto all’intersezione delle oppressioni di genere, razza e classe».
L’8 marzo quindi, come scrivono nel documento Contro la vita da straniere e il lavoro da migranti: l’8 marzo il nostro sciopero femminista, incroceranno le braccia e si fermeranno per “lottare contro uno sfruttamento che si fa più intenso e violento quando si dipende da un permesso di soggiorno, quando si hanno figlie e figli nati qui che non sono cittadini, lottare contro un maschilismo che è legittimato dal fatto che siamo migranti e perciò costrette ad accettare salari e contratti che arricchiscono solo i padroni e ci espongono alla violenza, lottare contro un razzismo che ci colpisce di più in quanto donne, che ci fa dipendere dai documenti dei mariti, che ci costringe nel lavoro domestico e di cura o ai turni assurdi delle fabbriche o in campagna, che ci fa pesare il colore della nostra pelle.”
Porteranno nelle piazze la loro «prospettiva, parlando in prima persona come donne migranti» perché, conclude C., «se la lotta contro la violenza patriarcale non si schiera contro il razzismo istituzionale che amplifica lo sfruttamento delle donne migranti, la libertà per cui lottiamo non potrà mai essere davvero collettiva».