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Violenza, visibilità e potere: cosa può insegnarci il caso Asia Argento

Immagine da Wikimedia Commons

La notizia ha ormai già fatto il giro del web: Asia Argento ha pagato un ragazzo che l’ha accusata di violenza sessuale.

La stessa Asia Argento che è diventata uno dei volti del movimento #metoo contro le violenze sessuali sul lavoro. La stessa Asia Argento che è scesa in piazza con le femministe, sostenuta dalla rete Non Una di Meno. La stessa che è stata ritratta a pugno alzato (il “no shame fist”) dalla fumettista iraniana Marjane Satrapi in un logo diventato simbolo della lotta contro la violenza sulle donne.

Sulla base di alcuni documenti spediti in forma anonima, il New York Times ha raccontato che l’attrice e regista ha accettato di versare 380mila dollari a Jimmy Bennett, un giovane attore che aveva recitato in un suo film e che l’ha accusata di averlo aggredito sessualmente. All’epoca dei fatti, il 2013, lui aveva 17 anni (il Post ha pubblicato un resoconto fedele all’articolo originale in italiano).

L’accordo economico è stato raggiunto in privato, fuori dai tribunali, e Asia Argento non è mai stata indagata. Da ciò che ha riportato il quotidiano statunitense, non è chiaro se si sia trattato di un risarcimento o semplicemente di una trattativa per evitare una denuncia, come dichiarato dall’attrice, che ha negato ogni accusa: “Sono profondamente scioccata e colpita leggendo notizie che sono assolutamente false. Non ho mai avuto alcuna relazione sessuale con Bennett”.

Questi sono, finora, i fatti.

Le reazioni sono state tra le più diverse. C’è chi sottolinea che il pagamento non corrisponda necessariamente a un’ammissione di colpa e su Twitter è stato diffuso l’hashtag #IoStoConAsia, ma in rete non si contano gli insulti all’attrice e, purtroppo, la messa in discussione dell’intera campagna #metoo.

Non mancano neanche le delegittimazioni delle accuse di violenza, che colpiscono anche gli uomini: in tanti hanno deriso Jimmy Bennett perché in quanto maschio avrebbe dovuto essere contento di fare sesso con una donna bella e famosa. Come se gli uomini fossero tutti uguali e non potessero essere vittime di abuso.

Insomma, le conseguenze di questa notizia – a prescindere da cosa ne si pensi – sono tanti e già tangibili e impattano inevitabilmente su parte del movimento femminista italiano. Molte attiviste hanno dichiarato di essersi sentite “tradite”.

Come si reagisce a vicende come queste? Una riflessione politica è necessaria e questo è il mio contributo.

  1. Non dobbiamo fare l’errore di negare la violenza

Il fatto che ci sia il dubbio che Asia Argento abbia potuto aver agito violenza non significa che lei non l’abbia subita, né che le molestie di cui è stata vittima sono per questo meno gravi.

Se mettessimo in dubbio la veridicità della testimonianza di Argento, commetteremmo un grosso errore: quello di scegliere di stare solo dalla parte delle donne che corrispondono allo stereotipo della vittima. Come ha ben scritto Carolina Capria, “per essere credibile come vittima di uno stupro non devi essere esempio di virtù”.

Un conto è mettere in discussione Asia Argento come icona antiviolenza, un altro è mettere in discussione la sua denuncia. Farlo significherebbe assecondare un ragionamento molto rischioso: dubitare delle testimonianze di violenza delle donne a seconda del giudizio morale che abbiamo su di loro.

2. La violenza è un abuso di potere, e il potere ce l’hanno anche le donne

Come femministe, quando parliamo di violenza di genere, non manchiamo mai di ricordare che alla base di ogni tipo di molestia (da quelle più affrontabili fino alle più gravi) c’è sempre la stessa identica dinamica: l’abuso di potere.

Quando si verifica una violenza, c’è sempre una persona che ha – per ruolo, forza fisica, contesto o altri fattori – una posizione dominante nei confronti di un’altra, che ne è succube.

La vicenda di Asia Argento (che la violenza sia avvenuta davvero o meno) ci fa riflettere su come, a seconda dei contesti e delle situazioni, anche le donne possono trovarsi in una posizione di potere, e abusarne.

Quando parliamo di violenza, dunque, dobbiamo soffermarci a riflettere su questa dinamica di potere e abuso e agire per smantellarla, a prescindere da quale sia il genere delle persone coinvolte.

3. Il femminismo di oggi può fare a meno della visibilità mediatica?

Questa vicenda apre molti interrogativi su come è stata gestita la campagna #metoo, che ha legittimato la visibilità di Asia Argento come volto delle rivendicazioni femministe contro la violenza, nonostante l’attrice prima del #metoo non si fosse mai esposta per i movimenti femministi di base.

La pornoattivista Slavina, ha scritto su Facebook che “il problema non è Asia Argento ma quella dinamica che spinge le masse (anche quelle in cerca di consapevolezza politica) a idolatrare la vip di turno piuttosto che a guardarsi intorno e creare reti solidali valorizzando le azioni dal basso”.

Perché abbiamo sentito il bisogno di avere come punto di riferimento un volto noto? Non bastavamo tutte unite, con le nostre voci, per farci sentire e incidere sull’opinione pubblica? Non potevamo concentrarci più sulle azioni da compiere per tutelarci e reagire (le reti solidali di cui parla Slavina) che sulla visibilità mediatica?

Queste domande rimangono aperte e non credo abbiano una risposta univoca.

Di sicuro il #metoo è stato un movimento innanzitutto mediatico: se non fosse partito da donne molto famose e visibili, difficilmente avrebbe avuto l’eco che ha suscitato in tutto il mondo. Lo tsunami è stato veloce e improvviso e anche in Italia c’era la necessità di trovare figure simboliche. Ed ecco Asia Argento: aveva denunciato una violenza (fu una delle prime a parlare degli abusi di Weinstein e a pagarne le conseguenze) ed era stata aggredita e bullizzata, sulla rete e in televisione. Era lei, in quel momento, il volto molto famoso e visibile di tante donne che avevano subito lo stesso trattamento dopo essere state molestate e violentate.

Asia Argento meritava tutto il sostegno e la solidarietà possibili, sia chiaro.

L’interrogativo è se sia stata una scelta saggia affidare a una sola persona famosa, che fino a quel momento non si era mai vista tra le fila femministe, la responsabilità di essere il volto (non l’unico, certo, ma sicuramente quello più visibile) di una campagna contro la violenza sessista dalla portata rivoluzionaria.

Nessuna le ha dato espressamente questo ruolo, ma in poche l’hanno contestato o sollevato dubbi: è successo tutto spontaneamente, passando da Twitter a Instagram ai titoli dei giornali, fino alle manifestazioni.

L’agire politico di una rete femminista può farsi fagocitare dalle dinamiche comunicative dei mass media e dei social network?

Viene spontaneo rispondere: certo che no. È ingenuo, è irresponsabile, è un errore politico. Significa avallare un sistema di comunicazione che fa parte anch’esso del sistema di potere che combattiamo. Che si basa su chi urla più forte, su numeri che danno valore alle nostre parole e alle nostre foto, sulla ricerca spasmodica di like che ci porta più spesso a compiacere che a metterci in discussione.

Ma sarebbe altrettanto ingenuo, irresponsabile e sbagliato non tenere conto di questo sistema di comunicazione nelle nostre azioni femministe. Perché saremmo fuori dal mondo, perché ce la canteremmo e suoneremmo da sole e da sol*, perché non riusciremmo a entrare in contatto con chi dovrebbe ereditare le nostre lotte e oggi comunica prevalentemente online.

Allora credo che la sfida sia quella di riuscire a usare questi mezzi senza esserne complici, appropriarcene senza assecondare derive che ci spingono – spesso involontariamente – alla ricerca di una visibilità che non necessariamente può contribuire in modo positivo alla soluzione dei nostri problemi.

La sfida è anche trovare alternative valide a un sistema di comunicazione che troppo facilmente si insinua in modo aggressivo nel nostro privato e influenza il nostro agire. Molti strumenti ci sono già, altri sono ancora tutti da costruire.

4. Il #metoo non è (solo) Asia Argento

Infine non dimentichiamoci che Asia Argento era uno dei tanti volti di donne che hanno subito e subiscono abusi e violenze sessuali sul lavoro e che stanno lottando per cambiare le cose.

Concordo con la giornalista Stefania Prandi che, più che su Asia Argento, che ha il potere e i mezzi per far sentire a livello globale la propria voce, dovremmo concentrarci su chi questo potere e questi mezzi non li ha.

Come le dieci braccianti che hanno avuto il coraggio di denunciare i loro oppressori in Spagna e per questo sono state licenziate: a questo link la raccolta fondi per sostenerle.

La battaglia del #metoo, la battaglia contro la violenza sulle donne, la battaglia per l’autodeterminazione dei nostri corpi e per il rispetto della nostra dignità non si ferma certo qui.