A novembre 2014, nell’ambito della Fiera dell’editoria indipendente di Pisa (Pisa Book fair) sono andata a sentire una conferenza di Dacia Maraini, una delle mie scrittrici preferite. Presentava il suo libro su Chiara d’Assisi, che avevo già recensito con gioia. Un dettaglio mi ha colpito: mentre parlava delle mistiche del Medioevo, l’autrice si è messa a parlare di un tema che mi tocca nel profondo, i disturbi del comportamento alimentare, in particolare l’anoressia.
Maraini ha detto una cosa coraggiosa e molto vera (almeno per me, che l’ho sempre vissuta in questo modo), che l’anoressia non è tanto un imitare modelli fisici, inseguire le modelle della pubblicità e le attrici anche quando non siamo come loro, è un disagio (consapevole o inconsapevole) molto più profondo, è un grido alla ricerca di spiritualità. Non è una malattia da “galline”, da persone superficiali e vuote (le persone che badano all’aspetto fisico sono “galline”? Non è anche questo un pregiudizio?).
Ve lo spiego come me lo sono sempre spiegata io, è un modo, malato, perché di malattia si tratta, di privilegiare l’animo (sentimenti, cuore, intelletto) sul corpo, un atto di ribellione contro un mondo che, non da oggi ma in questo momento storico con particolare crudeltà, considera prima i corpi (oggetti, feticci) e poi tutto ciò che di una persona è intangibile (l’intelligenza, la sensibilità, i sentimenti, le emozioni).
Voglio raccontarvi una storia.
Sono sempre stata diversa dagli altri, per mille motivi. Perché non ho mai amato fare solo giochi “da femmina”, perché fin da bambina sono sempre stata più grassa e più alta delle mie coetanee, perché mi è sempre piaciuto andare per musei, leggere, scrivere piuttosto che sedermi davanti a una console per giochi. Non amo stare in mezzo alla gente, trovo molto più semplice scrivere che parlare. Quello che vi racconto oggi non sarei in grado di farlo a voce. I rapporti con le persone mi piacciono, ma mi stancano. Io amo il silenzio, ne ho bisogno. Non che in un modo di essere o l’altro ci sia qualcosa di male, sono solo modi di essere diversi.
Il mio non era quello della maggioranza.
Sono sempre stata presa in giro per questo, fin dalle elementari. Perché ero secchiona (come se esser curiosi e avere il piacere di studiare fosse una colpa), perché ero grassa (complice un metabolismo lento, ereditato dalla mia famiglia, nonostante lo sport e i giochi all’aria aperta, l’essere sempre stata al 90esimo percentile, le cure al cortisone per la prima delle mie malattie autoimmunitarie). Non ho mai potuto mangiare quello che volevo, come i miei coetanei (non li chiamo amici, perché di amici veri non ne ho mai avuti finché sono diventata adulta). Ho fatto la mia prima dieta in quarta elementare.
Poi è arrivato lo sviluppo, alle medie, il mio corpo si è un po’ normalizzato, ma non agli occhi degli altri. Rimanevo additata come “la grassona”. A questo si è aggiunta un’altra “colpa” più grave, che mi ha causato anni di prese in giro, di solitudine, di botte (sì, perché la colpevolizzazione della vittima è una cultura diffusa, anche da parte di quelle figure, come noi insegnanti, che dovrebbero combattere questi atteggiamenti): alle mie stranezze, si aggiungeva la mia omosessualità (che gli altri avevano percepito prima che io stessa ne avessi coscienza).
Per tutta un’altra serie di problemi familiari, tra i quali la perdita di una delle persone più care che avessi, proprio negli anni in cui ti dovresti sentire onnipotente e padrone del mondo, la mia autostima si è sgretolata come un muro mal costruito. Mi sono trascinata alle superiori, cercando di normalizzarmi, di annullare la mia diversità, facendo leva sull’unica cosa in cui ho sempre creduto: il mio intelletto, la mia creatività. Non sono mai riuscita a fare pace col mio corpo, ho preferito dimenticarlo. Era un accessorio, appiccicato a me, che subiva cambiamenti (ingrassava e dimagriva) senza che ne avessi un gran controllo.
Penserete che a quest’età abbia cominciato coi digiuni, con l’attività fisica forzata, perché l’anoressia è una roba da adolescenti, no?
Sbagliato. Mi sono ammalata all’università. La mia scissione corpo-anima è scoppiata al secondo anno, quando per la prima volta mi sono innamorata davvero. Lei era tutto quello che avrei voluto essere per essere normale: solare, simpatica, popolare, leggera (nel senso calviniano del termine), intelligente ma non intellettualmente sofisticata, affascinante, forse anche bella per davvero. Mi ha amato anche lei, siamo state bene insieme. Mi restituiva la gioia di vivere che avevo assopito, mi permetteva di essere me stessa senza maschere, coi miei lampi, il mio buio, le mie parole e la mia sensibilità.
Ma non era lesbica, forse neppure bisessuale. Presto questo ha cominciato a pesare: “ti amo, ma non è giusto; ti amo, ma ho diritto a farmi una vita mia, un marito, dei figli. È così che le cose devono andare. La tua è una strada che non posso seguire”. Il nostro rapporto è diventato morboso e malato. Per me è tornata prepotente la sensazione di essere imprigionata in un corpo non mio, che non odiavo, che rifiutavo. Volevo scomparire, diventare neutrale. Mi illudevo che di me potesse rimanere solo la voce, solo l’anima. Perché a me importava che si vedesse quello, essere solo puro intelletto e puro cuore, buttare via il resto.
Ho cominciato a contare le calorie, sempre, tutti i giorni. A mangiare sempre un po’ meno, a bere troppa acqua, a distrarre la fame con la lettura, la scrittura, la studio. A intensificare gli allenamenti a danza. Mi sentivo bene quando mi dicevano che ero “in forma”, anche se lei mi diceva che stavo diventando “troppo ossuta”, dove fino a poco tempo prima ero stata “un po’ grossa”.
Volevo lasciarmi morire. Sentivo la mia esistenza come un enorme spreco di spazio, volevo rimpicciolirmi, rintanarmi in un angolo fino a diventare invisibile. In questo modo nulla mi avrebbe più toccato e io non sarei stata più causa di dolore per nessuno a causa di tutte le mie diversità.
È andata avanti per un po’, finché a casa mia si sono insospettiti (complice l’alta percentuale di medici in casa) e mi hanno costretto a fare degli esami. Nessuno mi ha offerto supporto psicologico, né in famiglia né tra i medici. Mi sono tirata su con le mie forze, scrivendo e leggendo. Non è una strada che consiglierei a chiunque, ma trovare la molla che fa scattare una reazione (per me sono state due, la scrittura e l’impegno politico-sociale) è il primo passo per ristabilire un equilibrio.
Senza il corpo, l’animo muore.
E allora a un certo punto scendi a un compromesso, per portare avanti quello in cui credi davvero. Perché la tua anima brilli, perché qualcun altro si accorga della bellezza che conta davvero, quella che è nell’unicità delle nostre emozioni, bisogna continuare a vivere.
Quando stavo male, voglio anche dirvi, non ho mai pensato per un giorno a voler essere come una modella o un’attrice, non volevo essere considerata bellissima, né entrare per forza in una taglia 38. Volevo solo essere “normale”. Volevo urlare di esistere al di là delle mie smagliature, delle braccia grosse, del seno piccolo.
Non credete a chi vi dice che l’anoressia è una malattia per persone vacue, per gente superficiale che si fa solo condizionare dai media. Non credete a chi la dipinge, in modo (forse inconsciamente) denigratorio, come una malattia per adolescenti insicure. Sono balle, sono scuse per non assumersi, come corpo sociale, la responsabilità di imporre un modello di rapporto tra corpo e personalità che è sbagliato. I DCA (disturbi del comportamento alimentare) sono qualcosa di molto più profondo, più legato alla società. È la ribellione primitiva di anime costrette in una società che omologa ed emargina.
Siate combattenti.
Combattete tutti, donne e uomini, perché i DCA colpiscono anche gli uomini, solo che, per banale sessismo, se ne parla meno. Ammalarsi non è una debolezza. Non lo è neppure chiedere aiuto.
Oggi, quasi dieci anni dopo, sto bene.
Certo, ho le mie insicurezze, le mie cicatrici, le mie fragilità. Ma ho anche molta forza e molto coraggio. Ho un rapporto col mio corpo che non sarà mai completamente sereno, ma fidatevi, anche questo è uno stereotipo da commedia americana: sono pochissime le persone che stanno sempre sinceramente bene col proprio corpo, forse nessuna. Fa parte della nostra umanità. Ma ho anche una relazione solidissima con una donna che amo sopra ogni altra persona al mondo, pochi amici strettissimi che mi amano e mi rispettano per tutto quello che sono. Soprattutto quello che ho imparato dalla malattia è che, nonostante i momenti di buio (e ce ne sono, come per tutti!), non mi vorrei cambiare mai più, anima e corpo.
Perché sono quello che sono e combatto ogni giorno perché il mio piccolo spazio sia solo e soltanto mio, perché il mio essere diversa, cioè unica come essere umano, arricchisce il mondo, non lo danneggia.