“Noi siamo gay e musulmani. Non abbiamo bisogno di nessuna approvazione e vogliamo vivere la nostra sessualità e la nostra fede liberamente”. – Wajahat Abbas Kazmi
Come vive la comunità Lgbt+ nei Paesi musulmani? Ce lo racconta il documentario Allah Loves Equality, finanziato dal basso attraverso una raccolta fondi di cui Pasionaria.it è stata media partner. Le riprese sono concluse, ma ora serve ancora un piccolo aiuto per le spese di montaggio e doppiaggio ed è partita una nuova campagna di crowdfunding.
Il progetto è nato grazie al sostegno della piattaforma Il Grande Colibrì e all’attivismo di Wajahat Abbas Kazmi, regista 32enne di origini pakistane trapiantato a Bergamo, che da anni ha deciso di metterci la faccia e affrontare pubblicamente il delicato tema del rapporto tra omosessualità e Islam. Sì, è proprio lui, il ragazzo fotografato a ogni Pride con il cartello arcobaleno Allah Loves Equality, spesso affiancato dall’attivista femminista musulmana Sveva Basirah Balzini, fondatrice del blog Sono l’unica mia.
Avevamo già intervistato Wajahat ai nastri di partenza di Allah Loves Equality e, ora che è tornato dalle riprese in Pakistan, abbiamo deciso di farci raccontare questa avventura coinvolgendo anche il suo braccio destro, Elena de Piccoli, 32enne veneta attivista per i diritti umani ed esperta di Medio Oriente, che collabora con Il Grande Colibrì e con Amnesty International.
Scopriamo come è stata l’esperienza di un musulmano e una cristiana insieme contro omotransfobia e islamofobia.
Dopo la conclusione del crowdfunding sono iniziate le riprese: come è andata questa fase del progetto e quando potremo vedere il documentario?
Elena: Siamo partiti per il Pakistan ai primi di novembre del 2017 e abbiamo effettuato le riprese per un mese, passando attraverso diverse città, tra cui Lahore, Islamabad e Rawalpindi. Avevamo sempre la videocamera con noi, ogni occasione poteva essere buona per scoprire una nuova storia inaspettata. Abbiamo ascoltato molte persone: coppie omosessuali, transgender, singoli attivisti, collaboratori di diverse associazioni… insomma, chiunque fosse disposto e disposta a raccontare la propria storia. Alcuni di loro erano già in contatto con noi, altre collaborazioni invece sono nate durante lo stesso viaggio ed è stata proprio questa una delle cose più entusiasmanti!
Parte dell’entusiasmo derivava dal vedere come la rete di contatti si infittisse ogni giorno: ci faceva capire quanto le persone si fidassero di noi e quanto fosse importante quello che stavamo facendo, quanto le persone sentissero davvero il bisogno di trovare qualcuno che desse loro voce, che permettesse loro di raccontarsi e di dare una dignità alle loro storie… speriamo che il frutto del nostro lavoro sia pronto e disponibile a breve, nei prossimi mesi!
Come è stato il percorso di Allah Loves Equality finora? Quali sono stati i principali ostacoli che avete dovuto superare per andare avanti e che pensate di dover affrontare in futuro?
Wajahat: All’inizio, nonostante l’entusiasmo, ci siamo trovati non poco in difficoltà: il tema “islam e diversità sessuale” era affrontato solo dal Grande Colibrì, che è nato nel 2011, ha rotto il tabù e ha dovuto affrontare per anni insulti e minacce da diversi fronti. Il cartello alle manifestazioni ha alimentato ancora di più il dibattito, per la sua immediatezza e semplicità, e poi finalmente una persona omosessuale musulmana ci metteva la faccia, cosa che non era mai successa prima, almeno non in Italia. Per fortuna tutta l’associazione Il Grande Colibrì, alla quale il progetto deve davvero molto, ha creduto immediatamente nel progetto del documentario, con donazioni, ma soprattutto mettendoci anima e cuore, quando invece agli altri sembrava un po’ una follia, sia per eventuali rischi, sia per il finanziamento. Piano piano si sono aggiunte tante persone, realtà, altre associazioni, a creare una rete davvero notevole.
Le riprese sono andate molto bene, con difficoltà in qualche caso, ma con la fortuna di aver acquisito molto più materiale del previsto, e persino migliore di quello che ci aspettavamo!
Ora ci manca solo di completare il lavoro di post-produzione, per questo abbiamo avviato una seconda campagna di raccolta fondi, abbiamo ancora bisogno di un piccolo aiuto!
Un progetto come questo attira da una parte l’odio islamofobo e dall’altra quello omofobo. Da questo punto di vista quali sono state le differenze tra l’Italia e il Pakistan?
Elena: Le differenze tra Pakistan e Italia, per quanto riguarda l’omofobia, non ci sono sembrate molte. In Pakistan l’omofobia è un sentimento che serpeggia quasi nascosto e velato, così come nascosta e velata è la percezione dell’esistenza di tale fenomeno. La questione è controversa: in Pakistan, ad esempio, le persone transessuali sono tollerate nella società, perché la loro presenza ha radici antiche. Sono sempre state però relegate a dei ruoli ben specifici nella società, e quello che desta più “preoccupazioni” è il fatto che finalmente queste persone sentano la necessità di spiccare il volo e avere delle ambizioni.
Per quanto riguarda l’islamofobia, è capitato che fossero persone musulmane a criticare il progetto, dicendo che non si può snaturare una religione pretendendo di far passare un concetto che piace a noi, ma che non è reale.
Questo problema ovviamente non si è posto soltanto in Pakistan, ma anche nel corso della campagna stessa. Se da una parte ci attaccavano pagine Facebook islamofobe che ci invitavano a portare le nostre idee in un paese islamico per vedere come ce la saremmo cavata, dall’altra invece c’erano alcune persone musulmane che ci attaccavano. Persone ovviamente molto estremiste, che sappiamo non rispecchiare l’Islam vero, quello degli ideali di pace e uguaglianza per i quali ci battiamo.
Wajahat, come è stato tornare nel tuo Paese per questa esperienza? Pensi che la situazione del Pakistan stia migliorando per la comunità Lgbt+?
Wajahat: Tornare nel mio paese è stato molto emozionante. A tratti sono stato molto felice di rivedere amici e attivisti, altre volte, invece, è stato molto doloroso dover affrontare la lontananza della famiglia. Trovo che il Pakistan sia cambiato già moltissimo negli ultimi anni, le persone Lgbt+ sono più visibili, più ambiziose, e invece di nascondersi trovano ora la forza di rompere il silenzio. Ho potuto notare anche molti miglioramenti legislativi e politici per quanto riguarda la situazione delle persone trans, miglioramenti che hanno influenzato molto in positivo la società e la cultura.
Internet ha rivoluzionato il modo di conoscersi, di fare rete, di trovare anche informazioni per confrontarsi e per conoscere la religione al di là di quello che dicono gli esponenti più conservatori arroccati al potere. Sono convinto che la situazione migliorerà ancora di più, è importante far sentire la voce di queste persone, perché avere voce e avere visibilità significa avere forza.
Elena, come è stata, invece, per te l’esperienza in Pakistan? Cosa ti ha colpito di più?
Elena: Ho sempre coltivato una grande passione per il subcontinente indiano e viaggiare lì è stato realizzare un sogno. Mi hanno colpito le persone e la loro immensa ospitalità, mi hanno colpito le meraviglie che si possono vedere, in particolare la magnifica Moschea Badshahi. Il Pakistan meriterebbe davvero di essere considerato maggiormente come meta turistica. Per quanto riguarda il progetto, ci sono alcune cose che mi hanno sorpresa e che, sinceramente, non mi aspettavo. Ad esempio, il fatto che le persone transessuali siano così “comuni” (passatemi il termine per semplificare il concetto) da vedere, mentre in Italia ancora si percepisce una certa fatica nell’accettare l’esistenza di persone che non si riconoscono nel proprio sesso biologico e decidono di affrontare una transizione. Anche per quanto riguarda la conoscenza e l’informazione sull’Hiv il Pakistan sembra davvero stare qualche passo davanti a noi.
Una sensazione che invece mi ha un po’ “appesantita” è stata quella di percepire che siamo arrivati come un’ondata di “speranza” nelle vite di alcune persone che soffrono per le discriminazioni e le vessazioni a cui sono sottoposte tutti i giorni. Io vivo una vita “privilegiata”, certo non senza problemi, ma sono libera di essere me stessa ogni giorno. Il documentario ha lo scopo di contribuire a smuovere le coscienze al fine di migliorare le condizioni delle persone intervistate, ma non risolverà i problemi di queste persone nell’immediato, né le solleverà magicamente e all’improvviso dal dover sopportare la sofferenza di cui ci hanno parlato.
Elena, tu sei cristiana ma indossi abitualmente simboli di diverse religioni e culture, puoi raccontarci perché?
Elena: Non sono ebrea, anche se indosso una stella di David. E non sono musulmana, anche se indosso un bracciale con i nomi del Profeta e della sua famiglia. Sono cristiana e in quanto tale, credo che il comandamento più grande che ci è stato lasciato, sia quello dell’Amore. Incondizionato. Verso tutti. Credo fortemente che siamo un tutt’uno. Che ci sia un Dio che sceglie linguaggi diversi per un’umanità così vasta e variegata. Credo che l’intolleranza causata dall’ignoranza sia uno dei mali più grandi che avvelena il nostro mondo. Il mio percorso di studi, incentrato appunto sull’Ebraismo e l’Islam, mi ha portata ad avvicinarmi alle religioni, ad appassionarmi e a lasciarmi coinvolgere in questa “lotta” contro l’islamofobia. Credo anche che come cristiana, l’uguaglianza sia uno dei più grandi valori per il quale combattere, ed è anche per questo che ho deciso di prendere parte ad Allah Loves Equality: per dimostrare quanto credo davvero nel fatto che dovremmo essere tutti più umani e renderci conto che, sotto al “cumulo” di religioni, culture, del colore della pelle, delle nazionalità, siamo essenzialmente tutti uguali.