
Il martedì di metà ottobre (quindi quest’anno il 13) è stato convenzionalmente scelto come “Ada Lovelace Day“, ovvero un’occasione per celebrare internazionalmente le donne che si occupano di Stem, sigla che sta per Science, Technology, Engineering and Maths, cioè “scienza, tecnologia, ingegneria e matematica”.
Chi era Ada Lovelace?
Augusta Ada Byron, contessa di Lovelace, nasce a Londra nel 1815, figlia del poeta Lord Byron, ed è nota come la “prima programmatrice”, grazie ad alcune sue intuizioni decisamente anticipatrici della nozione moderna di programmazione.
Su sollecitazione della madre, Anne Isabella Milbanke, Ada riceve un’educazione fortemente focalizzata sulla matematica, del tutto insolita per una donna di famiglia aristocratica dell’epoca, sviluppando così una comprensione di questa materia degna di nota.
Nel 1842 viene quindi invitata a tradurre, per la pubblicazione in Inghilterra, una descrizione in francese dell’Analytical Engine, un prototipo meccanico di computer ideato dal matematico, nonché caro amico di Ada, Charles Babbage. Ne nasce un articolo tre volte più lungo, Sketch of the Analytical Engine, che contiene annotazioni e commenti di Ada.
Si tratta di veri e propri “programmi” in miniatura, ovvero sequenze di comandi che codificano operazioni di calcolo, ma anche osservazioni sul potenziale utilizzo della stessa macchina per finalità più generali, dalla manipolazione di tutto ciò che è esprimibile attraverso simboli e le relazioni fra loro, all’elaborazione di brani musicali.
Proprio perché “solo” note alla traduzione, la portata visionaria di questi contributi è passata inosservata per decenni, per poi essere scoperta a metà del novecento. In suo onore, nel 1980, il dipartimento di Difesa statunitense decide di chiamare “Ada” un linguaggio di programmazione appena sviluppato.
C’è davvero bisogno di “celebrare” le scienziate?
Sono frequenti i commenti sull’inutilità di iniziative di questo tipo, se non addirittura sulla patina di vittimismo che avrebbero le donne che vi partecipano attivamente: i diritti per cui il femminismo si è battuto sono ora conquistati e a disposizione, c’è ancora qualcosa da reclamare?
Queste critiche sono superficiali.
In primo luogo per l’incapacità di riconoscere che questo discorso si potrebbe fare in pochi paesi al mondo, come Malala Yousafzai ci ha di recente ricordato con la sua battaglia per l’accesso all’educazione di milioni di giovani donne.
Inoltre, l’esistenza di una segregazione di genere e di una sottorappresentanza femminile nel campo delle scienze “dure” è innegabile perché ben documentata: proprio alla luce dei diritti acquisiti, ciò dovrebbe scatenare domande sul contesto sociale che ancora non riesce a promuoverne la realizzazione.
Infine, e soprattutto, questa critica manca di cogliere l’orizzonte di senso del lavoro da intraprendere per una uguaglianza di genere reale, che è a livello culturale.
La disuguaglianza fa ancora parte della nostra cultura
L’aspetto culturale condiziona il punto di vista sulle donne, sia da parte maschile che femminile (paradossalmente infatti anche le donne non di rado si guardano attraverso lo sguardo degli uomini). Anche quando ci pare di aver raggiunto l’apertura mentale più totale, sussistono delle forme di pregiudizio.
Ne sono sintomi da parte degli uomini alcuni toni paternalistici o la sorpresa nel riconoscere delle donne dotate di talento nel campo delle scienze, da parte femminile, invece, la percezione di “dover dimostrare” qualcosa, come se ci avventurassimo in un ambito non di nostra pertinenza. Questi sono tutti atteggiamenti su cui lavorare: l’obiettivo è quello di liberare il nostro sguardo dal filtro degli stereotipi, o almeno – e già sarebbe cosa lodevole – prenderne consapevolezza.
Ci sarebbe utile per smettere di pensare che se una donna decide di diventare ingegnera o fisica allora si tratta di una donna “mascolina”. Per evitare di aspettarsi che la presenza di donne nella comunità scientifica porti con sé ventate di frivolezza, come lascia intendere l’infelice spot realizzato nel 2012 dalla campagna europea “Science: it’s a girl thing!” (per quanto apprezzabile sia il progetto nel suo complesso).
L’aspetto culturale condiziona anche, consciamente e inconsciamente, le scelte personali delle donne. Per esempio si riscontra diffusamente una carenza di autostima nel valutare il proprio lavoro e nel prefissarsi obiettivi di carriera: la filosofa Michela Marzano, nel libro “Sii bella e stai zitta”, ci fa riflettere su quanto questo atteggiamento sia dovuto agli stimoli educativi tradizionalmente riservati alle bambine, con cui si è in genere più severi e meno indulgenti.
A questo problema seguono potenzialmente meccanismi di autoesclusione a vari livelli, dalla fase della formazione a quella dell’assunzione di ruoli dirigenziali: secondo una ricerca del 2012, nonostante all’università le donne siano più numerose e più brave, solo il 35% dei docenti universitari sono femmine e su 78 rettori italiani solo 5 non sono maschi.
Serve un nuovo immaginario per le giovani scienziate

Proprio per agire su questi aspetti culturali, che hanno effetti pervasivi, abbiamo bisogno di più donne che si occupino di scienza.
Ciò non significa che dobbiamo infilare donne ovunque indipendentemente dalle competenze: in questo modo non si farebbe altro che rafforzare quegli stereotipi da demistificare. Di donne competenti ce ne sono (Samantha Cristoforetti e Fabiola Gianotti, vi dicono qualcosa?), e la visibilità che si concede loro negli eventi organizzati per l’Ada Lovelace Day ha un intento ispiratore verso le nuove generazioni, in vista delle loro scelte di percorso.
Questa giornata celebrativa è quindi una di quelle buone pratiche per gettare le basi culturali e per incentivare la realizzazione dell’uguaglianza di genere in Stem.
La costruzione della propria identità passa inevitabilmente attraverso dei processi di identificazione con le figure che troviamo nella narrativa dominante: più figure femminili in scienza, meno ancorate agli stereotipi, fanno sentire una giovane donna che vuole scegliere questo mondo più a suo agio, motivata, “libera” psicologicamente, e non solo materialmente.
“Celebrare” in questo caso ha quindi quest’ottica trasformatrice e costruttiva di immaginari.
Dare, insomma, visibilità oggi alla presenza crescente di donne nelle scienze serve a renderla la normalità di domani, che più non insospettisce né stupisce: perché la sua “straordinarietà” diventi semplicemente un po’ più ordinaria.