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Aborto: quando a distruggerti non è la scelta, ma chi ti fa sentire in colpa

Aborto: una donna in manifestazione regge il cartello "We are better than this!", "Siamo meglio di così"

Quando F. è entrata nel mio studio, si è seduta di fronte a me ed ha iniziato a parlare, a un certo punto ho sentito un nodo fortissimo allo stomaco e una fortissima rabbia (oh sì, anche le psicologhe si emozionano).

F. ha una storia particolare, piuttosto intensa. Mi scruta con grandi occhi e inizia a raccontare senza quasi prendere fiato, con quella smania di chi ha per troppo tempo tenuto tutto dentro, senza trovare un canale per lasciar fluire tutto quel groviglio di emozioni.

Tra i vari pezzi di vita, F. mi racconta che qualche anno fa in maniera molto serena e libera, insieme al suo partner, ha deciso di interrompere la sua gravidanza.

Non si è mai pentita, ma il giudizio implacabile delle altre persone riguardo la sua decisione l’ha ferita e colpita.

Mi racconta della durezza del personale della struttura ospedaliera, del suo calvario per riuscire a trovare un medico non obiettore, delle continue critiche per la sua scelta e dei goffi tentativi di farle cambiare idea.

Il problema non è stato abortire, il vero problema sono state le dinamiche colpevolizzanti che l’hanno circondata, la riprovazione sociale per aver fatto quella scelta.

Io ed F. abbiamo finito da un po’ di lavorare assieme e ho chiesto il suo permesso per raccontare questo pezzetto di storia, che mi è servita per compiere una ricerca sugli studi scientifici riguardo all’aborto, per capire quali potessero essere (e se ci fossero) delle conseguenza da un punto di vista psicologico sulle donne che decidono di interrompere una gravidanza per motivi personali e non di salute.

Provo a raccontarti che cosa ho scoperto.

Le risposte alle mie domande sono piuttosto controverse e il tema continua a spaccare anche la comunità scientifica.

Da una parte vengono riportate ricerche che testimoniano come le donne che scelgono l’Igv maturino senso di colpa, ansia, angoscia, tristezza, depressione, abuso di alcol e droghe, autolesionismo, totale perdita di autostima.

In posizione totalmente differente c’è chi sostiene che, qualora non si desiderasse diventare madri, l’aborto non possa procurare altro che sollievo e che dietro questa decisione non si nasconda alcun rischio di incorrere in disturbi psicologici.

Chi ha ragione? Dove è possibile trovare un’informazione corretta, scevra da stereotipi e pregiudizi? Si tratta di un terreno estremamente fragile e manipolabile, non è affatto semplice riuscire a muoversi lontani da convinzioni ideologiche e religiose.

Da una parte si muove come uno spauracchio, una nuova presunta sindrome chiamata Sindrome Post Aborto (chiamata anche Pas, così come un’altra presunta sindrome che minaccia le donne), pare studiata già da molto tempo negli Stati Uniti. Dico pare, perché finora non sono riuscita a trovare nessuna fonte scientifica in merito, né rispetto all’autore o autrici della ricerca, né rispetto al campione o alle metodologie utilizzate. Da queste presunte ricerche effettuate negli Usa si rileva che il 62% delle donne che hanno scelto di praticare l’Igv volontariamente, sviluppino sintomi fisici e psichici simili alla sindrome da stress post traumatica. Questa sindrome al momento non gode di nessun tipo di riconoscimento scientifico che la inquadri in nessun sistema diagnostico attualmente conosciuto.

Dall’altra parte si muovono studi come quello sulle Turnaways, che aprono sicuramente scenari completamente differenti, in cui si rileva che le donne che volevano abortire e non hanno potuto farlo, sono andate incontro ad una serie di conseguenze negative per la propria salute psichica a differenza delle donne che hanno abortito assistite e al sicuro in ospedale.

La mia idea, da psicologa, è che questa cosiddetta “sindrome post abortiva” sia una strategia politica travestita da sindrome psichiatrica per avere credibilità.

Perché è certamente possibile che dopo l’aborto ci siano delle conseguenze psicologiche, ma come poterlo imputare alla scelta in sé e non invece a condizioni pregresse della donna, o al clima colpevolizzante che si respira attorno a questa scelta?

Un grosso limite è proprio la difficoltà nel stabilire quando un disturbo psicologico compare proprio a causa dell’interruzione di gravidanza o quando è invece frutto di altri eventi o contesti. Alcuni sintomi potrebbero comparire per esempio anche a molti mesi dall’aborto, diventando difficilmente riconducibili ad esso, così come alcuni disturbi potrebbero essere imputati erroneamente all’interruzione di gravidanza anche se suscitati da altri fattori.

Altra considerazione da non sottovalutare sono le ricerche sulle “non conseguenze”: molte donne abortiscono senza sviluppare nessun tipo di disturbo, in totale consapevolezza e perfettamente “lucide” della propria scelta. Di questa casistica non vogliamo proprio parlarne?

Il tema dell’aborto, come quello della contraccezione, o delle tecniche riproduttive, continua ad essere guardate con sospetto ed oserei dire con una discreta dose di paternalismo.

Tuttora manca lo spazio per l’esercizio in libertà della volontà di ogni donna e per un’analisi onesta delle circostanze in cui si decide di abortire, nella loro interezza. Tuttora c’è un costante impegno nel voler strumentalizzare le scelte che le donne vogliono compiere, in totale autodeterminazione, imponendo i propri pareri e convinzioni, spesso quasi in un delirio di onnipotenza.

Uno dei nostri primi diritti, in quanto donne, è quello di scegliere se e quando avere figli.
Solo questa libertà di scelta può consentirci di realizzarci per noi stesse, per i figli e figlie che già abbiamo o che avremo forse in futuro, per il nostro compagno o compagna e per la comunità stessa in cui viviamo.

È il momento di parlare seriamente di maternità, non come di una condizione divina, ma di una condizione umana che necessita rispetto per le scelte altrui e soprattutto consapevolezza.

È il momento di smettere di trattare le donne come esseri bisognosi di protezione che necessitano di una guida per poter decidere del proprio corpo o di esseri “mitologici” tra santità e peccato.

Decisamente è il momento di dire basta a chi si vuole sostituire a libero arbitrio di ciascuna e alla possibilità di autodeterminarsi.

Sono la propria volontà, la libertà d’azione e altre variabili a condizionare le emozioni e le reazioni specifiche che ognuna proverà in virtù della propria scelta. È però proprio questo il punto: la possibilità di scelta, sempre e comunque.

E ancora una, cento e mille volte, proprio per storie come quella di F. e di tante altre, è giusto continuare a lottare, senza retrocedere di un millimetro per i diritti acquisiti.

Vi aspettiamo in piazza il 28 settembre per rivendicare il diritto delle donne all’aborto sicuro: cerca la tua città tra le manifestazioni organizzate in tutta Italia da Non una di meno!

28 settembre #Liberedi
28 settembre #Liberedi